Uno dei registi più talentuosi del panorama contemporaneo torna al cinema con un film estremamente ambizioso
e parlavamo proprio su queste pagine: del fascino vichingo non se ne ha mai abbastanza. Non può quindi apparire come un caso che un autore cinematografico da sempre attento alla filologia qual è Robert Eggers scelga proprio un posizionamento storico, geografico e mitologico come quello della Scandinavia del primo millennio per allargare le maglie del suo percorso sullo schermo. Perché questa è l’intenzione dietro e davanti a The Northman, farsi grande.
Grande nel respiro, con una storia di vendetta pura e intima percorsa da picchi cosmici, riesumata dal mito norreno dell’Amleto che qualche secolo dopo sarebbe stato rivisitato nell’omonima tragedia da Shakespeare. Grande nel portafoglio, con la prima incursione di Eggers nel mondo dei budget d’alto profilo (stimato attorno ai 90 milioni di dollari), di quelli che possono fare la differenza nella vita professionale di un regista. Grande nella speranza di accoglienza del pubblico, mai come prima d’ora invitato, trascinato a metter piede nella sala per scoprire un autore che d’elitarismo aveva contornato le sue due opere precedenti, The Witch e The Lighthouse.
- Leggi anche: Perché amiamo i film sulla Vendetta?
Non che questi fossero necessariamente film ermetici, anzi, ma indubbiamente erano più che ben inseriti nel solco di un horror che striscia e si mostra solo come incubo latente, che rosicchia ai margini e deforma poco a poco quello che sta al centro. Non si mettevano subito a nudo, si fermavano nell’anticamera del baratro, sempre un istante prima di scoppiare. Erano di certo poi ben coccolati dalla distribuzione di una casa di produzione come la A24, che si vende come stipata nel mito dell’autorialità, dell’impianto “indie” (inteso oramai più come marchio stilistico che produttivo), dove risiede il suo cavallo da battaglia.
Al terzo giro dietro la macchina da presa Eggers si allontana da quest’isola che lo aveva accolto come figliol prodigo di un cinema horror contemporaneo del quale, nell’immaginario cinefilo collettivo, forma un dittico di spicco assieme ad Ari Aster. Non rinnega nulla, sia chiaro, semplicemente compie una sterzata nel proseguimento del suo percorso artistico e con questo The Northman, scritto assieme all’islandese Sjón, prova a compiere il balzo dove per la prima volta prende in contropiede i suoi stessi assunti. Si piazza sopra le possenti spalle di un Alexander Skarsgård plasmato all’occorrenza con le fattezze di una belva mastodontica, il principe Amleth scacciato dalla terra che gli spetta per diritto di nascita dopo il brutale assassinio del padre (Ethan Hawke) da parte dello zio regicida (Claes Bang).
Dall’alto di questa montagna che ha giurato di restituire indietro tutto il sangue e il dolore (fan fact: c’è anche un’altra montagna, quella di Game of Thrones), il film di Eggers tira dritto davanti a sé a suon di sferzate, corpi martoriati, casse toraciche sfondate. Il perturbante del caprone demoniaco di The Witch o della luce insondabile di The Lighthouse qui cambia forma. Il siderale non è più nelle lunghe attese di un delirio che cova, ma nella totale eliminazione dei filtri che separano la motivazione dall’atto, della distanza che separa la punta della spada dalla gola di un ostacolo da spedire nel Valhalla. Insomma, The Northman è un film scagliato con forza ostinata verso tutto ciò che si muove. Incede seguendo i dettami di un film d’avventura dove ogni cosa è caricata, in diversi frangenti anche con eccessiva convinzione, del sacro potere del simbolico.
Crede nelle proprie immagini, assolutamente, ma pare angustiarsi pure nel tentativo di renderle il più decifrabili possibile. Ne viene fuori dell’ipertrofia che mal cela l’inevitabile ansia da prestazione, che ragiona a tutti i costi sull’edificare un racconto epico che soffre di sovrabbondanza e lo rende quasi un corrispettivo speculare del Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn. La traccia è archetipica, ma nulla è celato allo sguardo, tutto viene spinto sulla superficie.
Perché se da un lato l’Eggers che abbiamo imparato a conoscere fino ad ora pare celarsi sotto il continuo tamburo di un film che non conosce tregua nel tentativo di arpionare a sé un pubblico che va stimolato col forcone, dall’altro se ne può rintracciare la matrice nelle zone di confine tra un balzo di grandeur e il successivo, nelle pieghe dell’oscurità morale (esplorata a metà in un paio di frangenti fondamentali), nell’attenta ricostruzione dei miti e delle profezie.
Ma non riescono, ad esempio, a convincere certe aperture all’onirico che di Amleth dovrebbero narrare gli istinti e i semi della follia, risolte con un abuso di una computer grafica se non dubbia quantomeno troppo fuori tono. Ecco, se volessimo individuare una parola chiave per fissare The Northman potrebbe essere proprio “troppo”. Skarsgård è troppo bestia e troppo poco uomo, sono troppo fondamentali le donne del film (Anya Taylor-Joy, Nicole Kidman) quanto troppo poco esplorate, il film sta troppo dietro al sentiero di guerra e si rende troppo poco riflessivo nel farci credere davvero alle ossessioni dei protagonisti, così come è troppo concentrato nella volontà di folgorare il pubblico ma troppo poco attento a non bruciarlo con quasi due ore e mezza incessanti.
Ma Robert Eggers non si è mica dimenticato come si faccia il cinema, che non passi questo messaggio. Tutt’altro. Crede nella forza di ciò che mette sullo schermo e un film come The Northman lo rende ben palese. In questo caso è costretto a crederci anche più del dovuto, nell’ingrato compito di non lasciare nulla di intentato e fare centro al botteghino. Non siamo del tutto convinti che sia questo l’Eggers che vogliamo vedere in futuro, questo sì, ma che il suo viaggio verso il box office assomigli di più a quello di una valchiria verso il Valhalla o a quello di Icaro verso il sole lo vedremo col tempo. Intanto, dal canto nostro, dare supporto a uno dei più grandi talenti del cinema contemporaneo è un atto doveroso.