Un horror mancato
Com’è noto, la piattaforma streaming più famosa del mondo (ovvero Netflix), in vista dell’emorragia di film che a breve investirà il suo amplissimo catalogo, ha deciso di incentivare la produzione di pellicole originali.
La conclamata ambizione dell’azienda del fu Zio Walt, ha portato Disney pigliatutto a dichiarare una concorrenza spietata a quello che un tempo era un canale privilegiato per i suoi prodotti, decidendo di rimuoverli nel 2019. Netflix sta dunque cercando di incrementare sempre di più i movie prodotti sotto il suo marchio, seppur non senza incidenti di percorso. Tra War Machine, Okja, The Meyerowitz Stories, Death Note e il chiacchieratissimo Bright (solo per citare alcuni): la sensazione è che i produttori abbiano talmente tanti soldi da permettersi di finanziare progetti un po’ a casaccio, gettando nel calderone più materiale possibile perché tanto gli utenti si bevono tutto. E questo, sebbene con qualche riserva, è il caso di The Open House, un horror realizzato da Matt Angel e Suzanne Coote, uscito il 19 gennaio.
Una tragedia improvvisa sconvolge la vita di Naomi Wallace (Piercey Dalton) e suo figlio Logan (Dylan Minnette), un giovane atleta che sogna di gareggiare alle Olimpiadi. Il marito muore in un incidente stradale, costringendo i due a fare i conti con delle ristrettezze economiche che rischiano di travolgerli. Per fare fronte alle necessità, la sorella della donna li invita a trascorrere qualche tempo nella loro villa in montagna. Ma l’abitazione è in vendita e dunque, ogni domenica, frotte di eventuali compratori la visitano guidati dall’agente immobiliare che se ne occupa. Tutto fila abbastanza liscio, fino a quando, dopo il passaggio dell’ennesima infornata di acquirenti, delle stranezze iniziano a funestare la casa. Oggetti che si spostano da soli, telefoni che spariscono, rumori sospetti… Naomi e Logan non sono più soli.
Per procedere senza incomprensioni di sorta, è necessario fare una piccola pausa per spiegare il meccanismo che sta alla base di tutto il film: le open house. Senza snocciolare un monologo sul mercato immobiliare con annessi e connessi, vi basti sapere che in America quando una casa è in vendita un giorno alla settimana vengono organizzate delle visite per osservare e capire se è di proprio gradimento. Una cosa che gli assidui consumatori di serie e sitcom sanno bene, visto che queste iniziative compaiono spesso nelle trame dei nostri serial preferiti ed è l’occasione per qualche spassosa battuta sull’insolita usanza. In realtà, a pensarci bene, si tratta di un’abitudine un po’ inquietante. Dei completi estranei che guardano, giudicano e scrutano ogni angolo della vostra abitazione, pensando magari a ciò che farebbero se tutto quello spazio fosse di loro proprietà. È una violazione della privacy, in fin dei conti, un contorto momento in cui il proprio nucleo famigliare viene messo alla berlina dal giudizio di perfetti sconosciuti. E cosa proibirebbe a qualcuno, chiunque, di nascondersi al suo interno e fare quello che gli pare?
È da questa idea che nasce e si sviluppa The Open House, cercando di trattare in una sfumatura nera quella che oltreoceano è una consuetudine normale quanto quella di farsi un caffè sotto casa. Per la verità, date queste premesse, lo spunto di partenza è buono e molto originale, sebbene radicato molto in quello che è il DNA dell’horror (interpretare in chiave orrorifica i costumi della quotidianità). La potremmo dunque definire, sulla carta, un’opera che tenta di mettersi in mezzo tra tradizione e innovazione, riprendendo vecchi concetti per elaborarli in maniera autonoma. Ambizione che, tra l’altro, risulta evidente fin dalle primissime inquadrature, dove si sprecano le citazioni ai giganti del genere sia da un punto di vista dell’immagine che del movimento di camera (su tutti, Shining di Stanley Kubrick). Del resto anche il plot di partenza ricorda molto il capolavoro tratto dal romanzo di Stephen King, quello dei protagonisti che vanno a vivere in una casa dove aleggiano infauste presenze (vere o immaginarie che siano), ma i riferimenti (voluti o meno) al Re dell’orrore e a tutta una cinematografia della paura degli anni 80′ si susseguono e, piano piano, finiscono per strafare e annoiare.
Soprattutto, si ricerca troppo l’effetto facile e datato, puntando sui jumpscare (come se piovessero) e una regia banale perfino nei momenti in cui ci si aspetterebbe qualcosa di più. Anche perché quando l’obiettivo è quello di costruire una sottile tensione basandosi sulla psicologia, sulla possibilità che ci sia veramente qualcosa, una presenza, è legittimo giocare sui sottintesi e sui dubbi per imprimere un’angoscia forte negli occhi di chi guarda, senza bisogno di spargere sangue a mo’ di fontana o sbudellando il primo che passa. E questo manca, nonostante si cerchi di farlo e vi siano tutte le potenzialità per riuscirci, al netto di un soggetto che sembra sposarsi alla perfezione con questa particolare visione.
La recitazione, mestamente, si incanala su questo binario morto. Per forza di cose, una simile storia deve reggersi sulle spalle di pochi attori talentuosi che vengono chiamati ad una prova decisamente intensa. Il caso di Jack Nicholson, sempre in Shining, è emblematico. Invece qui poco fanno e poco pretendono di fare Piercey Dalton e Dylan Minnette (il Clay di Thirteen reasons why). Nel film diventa fondamentale il rapporto sempre più compromesso dei loro personaggi, nella prospettiva di costruire un ambiente casalingo inquietante e inospitale, il cui fuoco dovrebbe essere la tragedia che madre e figlio si sono lasciati alle spalle, ma purtroppo questo dolore non si avverte, salvo per pochi tratti, anche perché lo spettatore non fa in tempo a capire dove si trova che dopo manco 5 minuti di visione muore un personaggio.
Un punto su cui si doveva insistere maggiormente, sulla cui emotività bisognava spingere, la stessa emotività che nessuno dei due protagonisti riesce a trasmettere. Soprattutto dato che il tema della “open house” risulta, simbolicamente parlando, centrale nella poetica che la pellicola cerca di veicolare. Infatti sembra descrivere perfettamente la situazione di Naomi e Logan, costretti ad affrontare le conseguenze di una perdita immane e dunque “aperti”, nel senso di vulnerabili, soli, persi in una situazione drammatica di cui il concetto di “casa aperta” che si vuole far trapelare è una metafora piuttosto scoperta.
Non a caso è tutt’un entrare di personaggi che si permettono di profanare il loro nido familiare senza riserve o rispetto alcuno, impattando con una quotidianità ormai diventata un incubo ad occhi aperti. Queste considerazioni, inoltre, fanno storcere ulteriormente il naso per un’ambizione di base ottima, molto intrigante, stroncata da uno script insoddisfacente e da una recitazione che si allinea con troppa facilità. Il risultato è un film che, seppur concepito da una buona idea, è nei fatti deficitario di fin troppe cose (praticamente tutte) per funzionare veramente.
Verdetto:
The Open House, il nuovo horror targato Netflix, parte con una buona idea di base ma si arena quasi subito in una regia banale e una costruzione scontata, mancando proprio là dove avrebbe dovuto osare. Un’esperienza complessivamente insoddisfacente che non lascia molto se non tanto rammarico per un soggetto promettente utilizzato male.