Da Hitchcock a Sally Potter
Nel corso di una carriera da regista, può capitare di avere il desiderio di confrontarsi con un genere particolare, magari fuori dai propri canoni e persino dalle proprie corde, per gusto personale o perché in quel determinato momento è ciò che il cineasta sente di voler fare. Del resto il cinema è arte, e per un artista i limiti sono ben pochi.
È quello che probabilmente è capitato a Sally Potter, regista navigata che mancava dalle scene da qualche anno e che è tornata in grande stile, almeno sulla carta, con The Party (in sala dall’8 febbraio), una particolare black comedy ambientata tutta all’interno di una casa.
L’abitazione in questione è quella di Janet (Kristin Scott Thomas) e suo marito Bill (Timothy Spall), e l’occasione del “party” è per festeggiare proprio la padrona di casa, che ha coronato il suo sogno di diventare un ministro del governo ombra (con il termine Party che appunto assume il doppio significato, di festa e di partito). Pochi “intimi” invitati, che daranno vita ad una narrazione serrata e senza sosta, in cui accadrà davvero di tutto nei circa 70 minuti complessivi, quindi decisamente pochi, ma assolutamente sufficienti per il modo in cui la Potter li fa fruttare.
Nel corso degli anni abbiamo visto parecchi film “interni“, ambientati in un unico luogo, in un’unica casa, persino in un’unica stanza o in spazi anche più ristretti, con l’esempio lampante di Buried di Rodrigo Cortes, tutto all’interno di una bara sotterrata, in cui diviene appunto fondamentale l’elemento tempo, che deve venir incontro alla nostra claustrofobia.
Hitchcock diceva che la durata di un film dovrebbe essere direttamente commisurata alla capacità di resistenza della vescica umana, ed è anche per questo che il suo Rope – Nodo alla Gola si aggira intorno ai 75 minuti.
Proprio da Hitchcok parte la nostra riflessione sul film della Potter, in quanto questo The Party sembra una sorta di omaggio al maestro londinese, concittadino della regista e artefice di un certo tipo di opere che hanno fatto scuola nella storia del cinema e alle quali Sally Potter sembra volersi ispirare, con un gusto retro che deve molto alla scelta del bianco e nero, e di tutto il resto a seguire.
La casa di Janet sembra un palco di teatro in cui gli attori si muovono e recitano in modo un po’ artefatto ed istrionico, seppur straordinariamente. Del resto in questo sono stati perfetti Potter e la sua troupe, scegliendo un cast adatto e di livello, con gli interpreti che mettono in piedi performance pressoché prive di sbavature. Timothy Spall, un comprimario di assoluto valore, spesso fin troppo sottovalutato, mette in evidenza tutto il peso della sua ultra quarantennale carriera, operando sul set un incredibile trasformazione del suo personaggio in un brevissimo arco narrativo, divenendo il motore attivo dell’azione. A lui si accodano tutti gli altri, a partire dalla già citata Kristin Scott Thomas, costretta a vivere nel giro di pochissimo tempo una serie di emozioni altamente contrastanti, senza palesare difficoltà alcuna ed anzi mostrando un livello di credibilità eccezionale. Un po’ eccentrico e fuori luogo ma a suo modo funzionale è invece il personaggio di Gotfried, interpretato da Bruno Ganz, e lo è ancor di più nella sua teatralità Cillian Murphy col suo Tom, a volte eccessivo ma mai banale.
In generale ognuno di loro, così come quelli che non abbiamo citato, ha il suo ruolo ben definito all’interno del racconto della Potter, e se Spall e i suoi ospiti sono il motore attivo dell’azione, il peso più importante ricade sulle invisibili spalle di Marienne, il motore passivo per il quale accade quasi tutto ciò che vediamo sulla scena.
Sally Potter è bravissima a racchiudere in così poco tempo, e in così poco spazio, tutta una serie di eventi altamente significativi e a collegarli alla perfezione, assicurandosi di confezionare il tutto con quell’atmosfera borghese tipica di alcuni ambienti e che rappresenta un leitmotiv ricorrente ma quasi necessario. Tutto bello, quindi? Non esattamente. Proprio in tema di necessità, ciò che viene da pensare al termine della visione è: “ma era davvero indispensabile questo film?”.
Probabilmente la risposta è no, e le motivazioni le ritroviamo sostanzialmente in una mancanza di originalità, che al di là del bel pacchetto, della perfomance degli attori e di tutto il resto, non può non farci avvertire quanto tutto questo risulti già visto e rivisto, magari in forme leggermente differenti, ma nemmeno troppo, il che – peraltro – di base non sarebbe un grosso problema, se non fosse che The Party non sembra definibile come film quanto piuttosto come puro esercizio di stile.
Resta di sicuro un prodotto valido, particolare, che troverà un seguito in grado di affezionarsi all’opera e ai personaggi, ma l’eccessiva teatralità può andar bene universalmente (o quasi) per opere concepite e realizzate come tali, tipo Coffee and Cigarettes di Jim Jarmusch, per dirne uno, a cui tra l’altro The Party un po’ si rifà, tra il bianco e nero e i dialoghi stravaganti, mentre non può esser visto alla stessa maniera un prodotto del genere, che tende pian piano a staccarsi dalla realtà per arrivare poi ad un finale che unisce il colpo di scena all’irrazionalità.
Verdetto:
The Party di Sally Potter è una black comedy estremamente particolare, ambientata tutto all’interno di una cosa e che somiglia molto, per struttura, estetica e narrazione ad un’opera teatrale. Tra ammiccamenti a Hitchcock e forse persino a Jim Jarmusch, la Potter crea la sua opera affidandosi a un cast eccezionale e che non sbaglia un colpo, confezionando un film che funziona ma che appare un po’ troppo distaccato dalla realtà e ci lascia la sensazione di un prodotto già visto e probabilmente nemmeno così necessario.