Il ritorno dell’antieroe
“Una guerra senza vincitori né vinti”
Spari, morti, sangue, uno stato adrenalinico che pervade il corpo, è così che ci eravamo lasciati con Frank nell’ultima stagione, e lui ha deciso di ritornare come aveva finito.
D’altronde, abbandonare l’Inferno non è mai facile, riuscire a salvare la propria anima, o quel poco che ne è rimasto, ancor meno, soprattutto per Frank Castle ma, a modo suo, il violento giustiziere è sempre stato in grado di risollevarsi dalla cenere, semper fidelis al proprio codice, ai propri ideali ed al proprio Io, in costante lotta contro il mondo, votato ad una guerra senza pace.
Dopo un’ottima prima stagione, approda su Netflix il nuovo capitolo di The Punisher e, in barba al family friendly di casa Marvel, la serie è riuscita, ancora una volta a mostrarci il perché la violenza sia così tanto importante nella storia del cinema e della TV.
Un tempo, il controverso ed inossidabile regista giapponese Takashi Miike definì la violenza come un atto dovuto in proporzione all’amore. Più era forte il sentimento, più era alto il concentrato di brutalità, come se quest’ultima fosse strettamente necessaria a poter suggellare un patto di sangue. Incurante di Miike, però, che – beninteso- è sempre stato tutto fuorché un animo romantico, Castle, o Castiglione che dir si voglia, non prova amore, non più, è deluso da tutto e tutti, e la ricerca di affetti l’ha portato solamente a consolidare maggiormente la sua voglia di vendetta verso un mondo troppo crudele.
La medicina, ovviamente, è la furia del Punitore. Sangue, morte, carne e ossa, una costante lotta contro il male che attanaglia ogni angolo di New York. I peccatori, però, non hanno diritto ad una seconda chance, non c’è possibilità di redenzione, l’ultima penitenza non è una preghiera, ma una pallottola.
The Punisher 2, oltre ad offrirci uno show articolato come il primo, ottiene un power up dato dalla mancanza dei flashback (che inizialmente, ad onor del vero, erano necessari) che hanno centellinato le puntate della prima stagione, permettendo un innalzamento della tensione e dell’azione.
Non ci sarà mai un reale momento di quiete, e ogni attimo di pace sarà solamente l’incipit della tempesta.
La storia vive un doppio intreccio, leggermente messo in disparte nello sviluppo centrale per poter dare maggior risalto ad una risoluzione, ma comunque sempre vivido nella mente dello spettatore. La quiete di Frank verrà destata dal ritorno del suo acerrimo nemico Billy Russo/Mosaico (interpretato da Ben Barnes), molto più instabile e fragile di come l’avevamo lasciato, e dalla comparsa di una misteriosa ragazza (la giovane, quanto interessantissima, Giorgia Whigham).
Il turbinio di avvenimenti si risolverà quasi sempre nella lunga scia di cadaveri, caduti per mano del Punitore.
Una risoluzione alla quale eravamo abituati, ma che, paradossalmente, diventa più cruda e viva, affascinando lo spettatore ulteriormente. Il che è strano, visto che la produzione Marvel, in concomitanza con ABC e Netflix, ricalca sì un personaggio esageratamente violento (forse il più sanguinoso del macroverso de La casa delle idee), ma sostanzialmente ancora più in rotta di collisione con la targetizzazione Disney.
Oltre a promuovere di nuovo i piani sequenza, lo sviluppo dei personaggi dettagliatamente caratterizzati, e le adrenaliniche scene di lotta e spari che non bastano mai e che vorremmo ancora e ancora – con un Jon Bernthal eccezionale, nato per questo ruolo – mi vorrei soffermare sulla cremisi ed affascinante “brutalità” dello show.
The Punisher, d’altronde, non è altro che l’altra faccia della medaglia rappresentata da Daredevil. Il diavolo di Hell’s Kitchen analizza la dannazione dell’animo, lo struggimento dello spirito e la costante lotta della fede, crede nella redenzione e nel perdono, nonostante il dilagare dell’oscurità e l’imperversare costante del male. Il Punitore invece è l’esatto opposto e ci mostra la macellazione della carne, lo spezzarsi delle ossa, e il crollo del corpo e della mente.
Kubrick (chiedo umilmente perdono, in ginocchio se necessario, per aver anche solo nominato il Maestro) ci ha mostrato come la violenza non deve essere mai fine a sé stessa, ma ci deve sempre portare da qualche parte, ci deve mostrare qualcosa, deve avere una finalità.
In molti hanno provato ad etichettare i più disparati prodotti cinematografici, artistici e non, sotto il concetto di “estetizzazione della violenza”, ma mai nessuno ci è riuscito come il regista di New York.
Molti hanno tentato, e ci sono anche riusciti tramite altri stratagemmi, altre “diapositive” (e non parlo del solito, quanto bello, Old Boy, ma più della sequenza dello strudel in Bastardi senza gloria di Tarantino), ma l’ultraviolenza di Arancia meccanica o la crudezza di Full Metal Jacket è ben altro, perché di base c’è sempre un esplicito, seppur celato, messaggio.
Ed è per questo che Frank Castle, proprio perché la blasfemia ha oramai, colpevolmente, impregnato questo articolo, è un personaggio perfetto per poter apparire sullo schermo mentre marcia tra le rovine e le fiamme intento a cantare assieme agli altri suoi camerati “La marcia di Topolino” in FMJ.
La semplicità del gesto, e la brutalità del momento, la dannazione dell’uomo sono la massima forma estetica che possa essere raggiunta da una simile produzione e, pertanto, oltre a promuovere in toto l’Io di questa nuova stagione, non posso far altro che chiedervi di non fermarvi al sangue sulla pelle, ma scavate sino al cuore pulsante del carnefice, e scoprirete molto altro, troverete un messaggio chiaro di un errante senza pace.