L’onda indonsiana travolge l’Occidente
Mentre in America il regista del prossimo I Mercenari 3, Patrick Hughes, comincia a preparare la produzione per il remake dell’action movie indonesiano del 2011 The Raid Redemption, l’ultima edizione del Sundance Film Festival, ha sancito il successo del suo diretto seguito. The Raid 2 Berandal è il secondo capitolo di una trilogia annunciata che sta spopolando con un consenso unanime tra tutti gli appassionati del filone action/arti marziali. Se non sapete di cosa stiamo parlando, vi invitiamo a recuperare la grave lacuna cominciando proprio dal primo capitolo. Non solo in quanto si tratta di uno dei migliori film di genere degli ultimi anni, ma anche perché questo seguito comincia esattamente dove il primo finiva. Proseguono quindi le vicende del poliziotto Rama, che questa volta cercherà di smantellare il sistema criminale che controlla la città direttamente dall’interno: la storia racconta il suo rischioso e difficile tentativo di infiltrarsi nella malavita locale e tutto quello che ne consegue. Le basi della sceneggiatura non sono del tutto originali (tra l’altro, gli spettatori più nerd noteranno qualche somiglianza con il gioco Sleeping Dogs, che a sua volta si ispira a classici canovacci delle gangster story made in Hong Kong), ma essa svolge a dovere il compito di tratteggiare la ruvidità del backgrond e la caratterizzazione dei cinici protagonisti e antagonisti, al di là della loro natura macchiettistica più o meno evidente (nel cast questa volta partecipano anche noti artisti del cinema asiatico, come il giapponese Kenichi Endō). Delineare da subito l’assenza di una certa moralità generale rende le spettacolari scene d’azione, vero cuore pulsante della pellicola, più coinvolgenti, trasmettendo un senso di violenza e pericolosità pulsante, in un mondo in cui il protagonista Rama, unico personaggio che sembra conservare una sorta di purezza d’animo, deve giocoforza scendere a patti con la violenza che lo circonda per sopravvivere.
Se queste possono sembrare le premesse di un film di genere come molti altri, ci pensa la messa in scena del talentuoso regista gallese Garret Evans a fare la differenza. The Raid 2 infatti è senza ombra di dubbio un capolavoro dei film di arti marziali e d’azione in generale, e alcune delle sue scene più riuscite lo pongono direttamente tra i massimi esponenti di un filone che nel cinema asiatico conta centinaia di esemplari. Il segreto di The Raid sta sicuramente nel modo di porsi con l’azione rappresentata su schermo, di qualsiasi natura essa sia. I combattimenti sono non solo tutti davvero riusciti dal punto di vista “tecnico”, ma anche geniali nella loro contestualizzazione. Le doti atletiche del giovane e velocissimo attore Iko Uwais (Rama) si sposano alla grande con le coreografie che trasmettono una fisicità e violenza senza eguali. Nessun movimento inutile, nessuna piroetta fuori luogo. Ogni scontro è potenzialmente mortale e prende vita dalle reali intenzioni dei “partecipanti” di annichilire completamente l’avversario nella maniera più veloce, efficace e necessariamente brutale possibile. Dove infatti non lesinano i particolari, è proprio nella rappresentazione della collisione del corpo umano con i colpi, spigoli, mazze e quant’altro. Ove infatti altri film edulcorano la violenza dello scontro nascondendo o non soffermandosi sullo strappo, la lacerazione o l’impatto subito, The Raid 2 decide invece di puntualizzare il senso di dolore in un crescendo di adrenalina che, similmente al primo capitolo, culmina con un combattimento “finale” esasperato fino all’estremo nei tempi e nello stress psicofisico dei due contendenti.
Garret Evans anima con la stessa filosofia anche le sequenze non strettamente legate alle arti marziali. Basti pensare allo spettacolare inseguimento in macchina che rappresenta uno dei picchi più alti del film. Qui non solo c’è l’inventiva di inserire scene destinate a diventare cult, come lo spettacolare combattimento a 5 dentro un’automobile lanciata a folle velocità che farebbe impallidire scene simili viste in altre pellicole come Matrix Reloaded, ma anche la capacità di tirare fuori ribaltamenti e complessi incidenti, girati con meno risorse di quante se ne usano solitamente nei film ad alto budget e senza utilizzare espedienti digitali (come ad esempio nei Fast and Furious) risultando per questo alla fine, paradossalmente più convincenti e verosimili. Non osiamo immaginare i rischi corsi dagli stunt durante le riprese nel ricreare dal vero queste incredibili “danze disastrose su quattro ruote”! Il regista confeziona ogni fotogramma della pellicola come un vero artigiano che mette perizia e passione nel proprio lavoro, mantenendo la qualità sempre costante, sia che si parli di una lunga sequenza corale di scontri e disordini all’aperto, con decine di persone e variabili da gestire, quanto piuttosto del claustrofobico scontro “di gruppo” all’interno dei minuscoli spazi di un bagno del carcere.
Non è tutto sangue quello che luccica
Anche negli aspetti più classici della regia, la classe non manca. Lo studio del dettaglio in primo piano, dell’inquadratura, del piano sequenza che ti rende tal scena vera e tangibile, non lasciano mai a desiderare. Non trapela però una narcisistica volontà di eccedere ma piuttosto la semplice volontà di fare un tutt’uno con la fotografia dalle tinte fredde per donare carattere al film. Nonostante l’ormai pluri evidenziata brutalità generale, a cui manca qualsiasi velleità di ironia o comicità con cui stemperare le atmosfere, la visione risulta comunque godibile grosso modo da “quasi” chiunque, risultando in primis un’opera destinata a intrattenere e divertire, seppur facendo leva su corde non certo spensierate. Al cast di interpreti, tutti destinati a vestire ruoli per lo più facilmente inquadrabili (il poliziotto buono, il poliziotto cattivo, il boss della malavita, il figlio di quest’ultimo spietato e ambizioso, ecc.), fanno eccezione un paio di personaggi maggiormente fuori dalle righe e più “variopinti”, come la sadica Hammer Girl (interpretata dalla bella Julie Estelle) e il suo compare con la mazza da Baseball, che “stonano” leggermente con il contesto generale, ma fanno parte di quegli archetipi di eccentricità del cinema asiatico che caratterizzano pellicole come questa, e vengono assimilati dal contesto generale che “si prende molto, molto sul serio ma comunque non troppo”. Curioso anche il ritorno dell’attore Yayan Ruhian, che dopo essere “morto” nel primo capitolo, torna con un personaggio completamente diverso nel secondo, arricchendo cosi’ la sceneggiatura con uno dei personaggi più interessanti dell’intera vicenda, il micidiale ma sentimentale sicaro Mad Prakoso.
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Ho adorato questo film e più ne scrivo, più ne scriverei. Decido però di fermarmi qui e consigliarlo a tutti gli appassionati di film BELLI, quelli un minimo smaliziati, capaci di riconoscere le mille possibili strade diverse per fare bene del Cinema, anche quando riguarda prodotti generalmente reputati di “serie B” come potrebbe essere il caso di The Raid 2. È giusto che abbia la stessa visibilità di produzioni infinitamente più blasonate e celebri che spesso però non valgono la metà del lavoro di Evans. Adesso però voglio un film in cui Iko Uwais se le dà di santa ragione con un altro maestro dei calci in faccia come Tony Jaa (The Protector; Ong Bak). Chissà, magari nel terzo capitolo…