“Sofferenza ed esistenza sono nient’altro che sinonimi per le anime fragili”
Descrivere Tim Burton non è semplice, perché definirlo come un visionario, sognatore, artista a 360 gradi, disegnatore, capace di dar vita a paure e sogni di tutte quelle persone che almeno una volta nella vita si sono sentite sole e diverse, è decisamente riduttivo.
Ogni giorno leggiamo qualcosa inerente al Maestro del gotico. Montagne di articoli che omaggiano ed inneggiano al suo stile inconfondibile e le sue meravigliose creature che hanno segnato per sempre la storia del cinema. Speciali che hanno analizzato il perché la meraviglia venga in soccorso di tutto i “weird” che aspettano un qualcosa che li sproni ad alzarsi e dire “sono orgoglioso di quello che sono”. Quotidianamente ci ricordiamo della sua grandezza.
O forse non è così.
Forse non leggiamo tutti questi articoli e queste pagine piene di inchiostro digitale che presuntuosamente provano a descrivere l’arte di un geniale cineasta che ha dato vita a mondi imperfettamente belli e fantastici. Forse perché ci siamo scordati di quanto possa essere stato grande Tim Burton per la settima arte, tanto da metterlo da parte per qualche opera non troppo riuscita degli ultimi tempi.
Pertanto, con un pizzico di spregiudicatezza ed un briciolo di follia, proverò ad unire tramite un filo fantasma il cineasta statunitense, con l’incredibile pittore norvegese Edvard Munch, maestro dell’espressione dell’animo umano. Perché, rispettivamente, in epoche dove l’Essere è stato impoverito di valori, loro due sono stati così magicamente simili nel ridestare le emozioni.
“Se hai avuto un tempo quella sensazione di solitudine, di essere un outsider… non ti abbandona mai del tutto. Puoi essere felice e realizzato, ma quella sensazione ti resta dentro” – Tim Burton
Una sensazione che permane costantemente, che ti ingloba, che ti isola. Una sensazione che, probabilmente, nasce dall’esterno, partorita dall’ambiente circostante, come in Sera sul viale Karl Johan, dipinto da Munch nel 1892, dove è ritratta una massa ordinata di persone che passeggiano, mascherati da pallidi volti, tetri e scheletrici, a rappresentare una società omologata e morta, con un tristo figuro che gli passa di fianco, chino, cupo, che non viene minimamente considerato. Quest’ombra è l’artista, colui che non ha bisogno di mischiarsi con la gente, colui il quale cerca e trova la bellezza e la soddisfazione solo nella propria arte, e tramite essa si discosta dalla società priva di valori. Una sorta di autoritratto della vita dell’artista norvegese. Come accadde, anni dopo, a Edward, con la W questa volta.
Siamo nel 1990, quasi 100 anni dopo l’opera di Munch, e nelle sale approda Edward mani di forbice, una delle pellicole cult della carriera di Tim Burton. Anche qui il protagonista, come per il dipinto sopracitato, è un artista. Solo, incompreso, ghettizzato perché diverso.
Nietzsche avrebbe detto “E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quello che non potevano sentire la musica” perché, in questo caso, è l’arte e l’astrazione mentale che prendono il posto di sinfonie e strumenti, e il ballerino senza gambe è nient’altro che l’artista dedito a dare vita alla proprie creature, sotto gli occhi sbigottiti della società triste e malata.
Nel film di Burton però l’ambiente che circonda il giovane Edward è colorato, sgargiante, quasi euforico, e il giovane outsider è inchiostrato da una palette di neri e grigi.
Una Pleasantville al contrario.
Un omaggio al diverso che riesce a compiere la propria rivoluzione solo essendo sé stesso.
Come venne reso da Munch tramite le proprie opere, così introspettive e scioccanti per un’epoca, e una società che voleva semplicemente abbandonarsi alle frivolezze del tempo. Come venne fatto da Burton, che all’età di 12 anni andò a vivere con la nonna per dei dissapori con i suoi genitori, a 16 decise di prendersi una casa tutta sua, e a 18, dopo aver vinto una borsa di studio, iniziò a collaborare con la Disney, da buon enfant prodige.
“Ho ereditato due dei più spaventosi nemici dell’umanità: il patrimonio della consunzione e la follia”
Con questa frase, il pittore norvegese, sintetizzò all’estremo la sua sofferta infanzia.
Dopo una serie infinita di lutti e contatti con parenti affetti da malattie mentali, il giovane Evard si avvicinò al mondo dell’arte per poter esternare tutti i sentimenti reconditi che era stato costretto a non poter condividere con nessun’altro oltre il proprio Io. Un sentimento d’amore soffocante che venne proiettato su tela nel 1897, con due giovani amanti che si consumano nella penombra della propria stanza, tramite un Bacio (nome dell’opera) passionale che li unisce sino a dissolvere i propri volti. Un sentimento che finisce per consumarli.
Due amanti che potrebbero tranquillamente prendere i nomi di Viktor ed Emily, i due protagonisti de La Sposa cadavere. Anche loro non si possono amare. Anche loro, seppur conoscano questo sentimento, sanno che le loro strade sono divise, oltre che per mezzo dell’inscindibile dicotomia per eccellenza rappresentata da vita e morte, anche da ulteriori figure.
Un amore che consuma la giovane Emily, conscia di amare Viktor, seppur lui non le appartenga, perché alla fine dei conti due persone possono amarsi anche senza possedersi. Un sentimento che ha trascinato la giovane sposa nel regno dei morti inizialmente, sino a spezzarle nuovamente il cuore quando è stata ridestata.
Nel gotico universo burtoniano, l’amore, indifferentemente da chi viene provato, è sempre un tema ricorrente e fondamentale. L’unico mezzo capace di poter riuscire a battere la freddezza della morte, o la ripetitività grigia della vita. Ne sono esempio Victor e Sparky (Frankensweenie) o Jack e Sally (Nightmare Before Christmas).
Un amore che, però, può portare anche alla pazzia, all’isolamento, al desiderio di vendetta indiscriminata verso tutto e tutti.
Una vendetta cruda e marcia, agognata segretamente, soprattutto da Sweeney Todd, l’uomo che nella vita precedente ha sofferto così tanto che è stato in grado di sopravvivere all’inferno per tornare con un’altra identità pur di ottenere giustizia. Una sofferenza che è rappresentata dalla figura del barbiere, come Munch decise (con uno sforzo ancora più grande ed azzardato) di esternarla nel suo Cristo, nel celebre dipinto di Golgotha.
Ma in questo caso le anime che lo circondano hanno compreso il dolore, e si ricerca la pietà. Todd no, e questo è paradossale, dopo un’intera sequela di opere dove il pittore norvegese si discostava per la sua visione ancora più cupa del mondo rispetto a Burton, il punto in cui il cineasta prende il posto del pittore.
Il padre di Big Fish e Il mistero di Sleepy Hollow, infatti, è sempre stato incline ad una ricerca smodata dell’estetica (peculiarità tipica della stragrande maggioranza degli artisti di fine ‘800). Palette sgargianti che andavano improvvisamente a cozzare contro tristi muri di grigi e neri figli di una cultura gotica presa e riplasmata ex novo dal Maestro.
Una costante esteriorizzazione dell’essenza stessa delle sue creature, dei suoi “freaks”, i quali, tramite un Io che velatamente celava quello che realmente erano, proprio per indurre maliziosamente il prossimo a giudicarli ancor prima di conoscerli, si mostravano sullo schermo orgogliosi di quello che rappresentavano. Peculiarità che l’ha reso l’anello di congiunzione tra pop e gotico (quest’ultimo, sino al suo arrivo, era stato sempre relegato solo alla cultura Horror), quasi ad imitare Munch, il quale fece incontrare l’impressionismo francese con l’espressionismo tedesco.
Un metodo adoperato da Tim Burton per mostrare senza nascondere. Per raccontare senza spiegare. Sin dalle sue inquietanti e meravigliose creature raccolte in Morte malinconica del bambino ostrica. Contrariamente a ciò, il norvegese autore del celebre Urlo, durante la sua fase più matura, abbandonò il dettaglio e l’esteriorità, celando le emozioni dietro un’estetica volutamente basilare, finalizzata all’esaltazione dell’essenza dell’inconscio.
Tecniche diametralmente opposte, ma con la medesima finalità, figlie di lignaggi e vite diverse, ma estremamente simili. Di artisti che hanno voluto ridestare l’essenzialità delle emozioni anche per mezzo dell’orrido e del grottesco.
Ma cosa voleva essere tutto questo? Un omaggio? Un ricercato studio del genio? O semplicemente un riconoscimento di quanto in comune possano aver avuto due artisti così diametralmente opposti e al contempo simili?
Probabilmente tutto e niente, ma ciò che conta è che, come nelle opere di Munch, davanti alle pellicole di Tim Burton non ci si soffermi all’estetica, ma si vada oltre, per riscoprire la sua importanza ed il suo genio, perché nella costante danse macabre tra vita e morte, realtà e finzione, bellezza e mostruosità, lui si cela al centro della sala con la bacchetta in mano, pronto a dirigere l’orchestra sino allo scrosciante applauso del cinema stesso.