Se la prima stagione di Gomorra era stata un’escalation di violenza e sete di potere, la seconda potrebbe tranquillamente essere definita come una macabra discesa negli inferi.
La serie italiana più acclamata di sempre, in Italia e all’estero… Possiamo dirlo? Lo diciamo. Gomorra è un autentico evento televisivo che ha cambiato il concetto di serialità nel nostro paese. Non era facile riprendere il discorso da dove era stato interrotto. Non era facile per tantissimi motivi. Uno di questi era l’aver costruito una serie di personaggi caratterizzati in maniera splendida, autori di un percorso di cambiamento, evoluzione e involuzione che ha stupito tutti, per il coraggio e la minuziosità con il quale è stato portato avanti.
E il cambiamento non poteva che essere uno dei temi centrali anche della seconda stagione. Un cambiamento che non avviene soltanto nell’animo dei protagonisti, ma anche dell’ambiente in cui si muovono. Non è vero che certe cose non cambiano mai, anzi. I tempi cambiano. Lo sa bene Pietro Savastano, latitante in fuga costretto a ritirarsi in Germania e ad attendere il momento giusto per dare inizio alla sua opera di riconquista. Lo sa suo figlio Genny, scampato per miracolo alla morte dopo la resa dei conti (solo rimandata) con Ciro ed ora deciso più che mai a “crescere”, rinunciando alla vendetta per costruirsi un futuro da Capo e non da “figlio di”. Lo sa bene lo stesso Ciro, arrivato finalmente in cima, il posto per cui ha sempre lottato, tradito, ingannato, ucciso. Lui è forse lo specchio dei suoi due antagonisti, lo specchio delle loro paure, delle loro insicurezze. Lo specchio dei loro fallimenti. Ciro Di Marzio si vede precipitare addosso il peso di ogni singolo errore, quintuplicato. Perché lui è solo, un uomo solo che non si fida di nessuno e di cui nessuno si fida, mai. Tutto il suo piano si trasforma in un domino che non risparmia nessuno. Ogni suo alleato cade e dopo di lui un altro e un altro e un altro ancora. Tutti trovano qualcuno con cui condividere i loro dolori, le loro paure, i loro drammi interiori. Lui trova soltanto solitudine e dolore.
Questo ci porta al secondo tema portante di questa stagione: i legami spezzati. Quei legami che nella prima stagione avevano praticamente veicolato le azioni di tutti i personaggi, ora di quelle azioni ne subiscono le conseguenze. I legami di sangue di cancellano col sangue. In questo senso le ultime due puntate sono emblematiche dell’impronta che Saviano e soci hanno voluto dare a questi personaggi. Essi sono totalmente incapaci di far trasparire umanità. Sono portatori di dolore e, alla fine, si macchiano tutti le mani col sangue delle persone che amano. Non espiano mai i loro peccati, in nessun modo, sono capaci soltanto di commetterne di nuovi, in una spirale di malvagità che li inghiotte e dalla quale non riusciranno mai ad uscire. C’è chi perde una moglie (uccidendola con le sue mani), un amico, un padre, un amore. E poi c’è chi perde qualsiasi tipo di contatto con la sua umanità, come Malammore, il braccio destro di Don Pietro, la sua coscienza silenziosa, che non fa mai domande, nemmeno quando gli si chiede di compiere il più brutale e ignobile dei delitti, per il quale chiede perdono a Dio, sapendo perfettamente che niente e nessuno potrà perdonare il suo gesto, nemmeno se stesso.
Abbiamo assistito ad un percorso di perdizione che ha inghiottito tutti, anche coloro che sembravano essere immuni a quel veleno di cui parla Ciro, in uno dei suoi dialoghi più belli con l’amico/nemico Gennaro. Il veleno che ti ribolle dentro, che ti consuma dall’interno. C’è chi riesce a conviverci, per qualche tempo. Poi però la sofferenza è troppo forte… E alla fine tutti si rivelano per quello che sono, uomini, donne. Esseri che non possono nascondere le loro debolezze. Né è l’immagine quel Salvatore Conte che fino alla prima stagione sembrava essere al di sopra di qualsiasi tentazione, di qualsivoglia eccesso, di tutto ciò che potesse ostacolare il suo “sogno”. Perché “l’omm che po’ fa meno e’tutt cos’, nun ten paura e’nient”. E invece quando si rimane soli ci si aggrappa a tutto e si riabbracciano persino le proprie debolezze. Ci si mostra per come si è realmente e questo ci fa spaventare. Salvatore Conte stava per rivelare il suo vero essere proprio nel momento in cui si è deciso di farlo uscire di scena, uno dei pochi errori di questa stagione a parere di chi vi scrive (uno che è talmente innamorato del talento di Marco Palvetti da essersi letteralmente infuriato all’idea). Il secondo è l’aver voluto riportare in scena con un pretesto francamente inaccettabile gli ex compagni di Genny (O’Trac e Co.), che se si rivede la puntata finale della scorsa stagione ci si domanda come abbiano fatto a sopravvivere a quell’agguato nel tunnel con solo qualche graffio. Ma sono forzature che nell’economia di una serie di questo livello ci possono stare. Perché poi succede che ti presentano una come Scianel, che ovviamente fa spese in un negozio d’alta moda e chiede lo “sconto Scianel”, è un’esperta di poker e uccide la gente affogandola, o bruciandola viva, a seconda dei casi. Poi, quando nessuno la vede, si mette le cuffie e canta orribili canzoni napoletane, usando un vibratore dorato ricoperto di swaroski come microfono. Come dite? Sembra qualcosa partorito dalla mente di Tarantino o di Guy Ritchie? Eh… sembra.
L’obiettivo degli sceneggiatori e dei registi era quello di proporre un colossale stallo alla messicana. Un tutti contro tutti di cui nessuno avrebbe potuto prevedere l’esito finale, di cui nessuno avrebbe potuto ipotizzare chi sarebbe rimasto in piedi. Ma poi, c’è davvero qualcuno che è rimasto in piedi? Tutti, almeno una volta, hanno dovuto prostrarsi davanti al proprio peccato, tutti… A parte uno, Genny. Lui è Nerone che suona l’arpa mentre guarda Roma bruciare dalla sua finestra. Salvatore Esposito fa un lavoro di una bravura raggelante sul suo personaggio. Gli fa assorbire gli sguardi di Ciro, di suo padre Pietro, delle persone che lo circondano. Quello che lui restituisce è freddezza. Gennaro è l’unico che continua ad evolversi, a “crescere”, smettendo di agire con l’istinto per diventare un abile calcolatore. Fanno tutti il suo gioco ma lui è l’unico che conosce le carte che hanno in mano gli altri. Proprio come in una partita di poker lui passa la mano quasi sempre, fino a che il piatto non si fa tanto ricco da tentare l’all-in. Vanno tutti a vedere, ovviamente. E fanno male. Genny è il banco e il banco vince sempre.
Ecco si potrebbe parlare per ore di Gomorra, di questa seconda stagione in particolare. Di tutte le cose che sono successe e che potrebbero succedere nelle prossime stagioni (terza e quarta già confermate). Si potrebbe parlare della sconvolgente maturità con cui ogni episodio è girato e dell’immane lavoro che i quattro registi che si sono alternati al timone della serie hanno fatto per mantenere uno standard qualitativo così elevato. Di come le nuove aggiunte del cast si siano perfettamente integrate nel meccanismo a orologeria innescato dagli sceneggiatori e abbiano TUTTE lasciate un qualche tipo di segno nella stagione. Potremmo parlare del coraggio che si è avuto, ancora una volta, nel mostrare una realtà che si muove accanto a noi, oggi. Perché quella scena lì, di cui tutti stanno parlando e di cui tutti continueranno a parlare, di cui si è arrivati addirittura ad insultare un attore professionista per averla interpretata, fa capire realmente che un’altra televisione, diversa, è possibile, come direbbe il buon René Ferretti. Perché nel momento in cui si ha paura di mostrare la realtà, muore qualsiasi proposito di realizzare un qualcosa di autentico. E questo in Italia non possiamo proprio permettercelo.
“A fine ro juorno sta tutta ‘cca” – Le parole di Don Pietro Savastano risuonano come a voler simboleggiare, paradossalmente, l’inizio di un nuovo ciclo, partendo però dalla fine. La fine di una rivalità che ha presentato un conto troppo alto, per tutti. Il cimitero diventa un luogo di resurrezione, mentre a chilometri di distanza una nuova vita sta nascendo e dovrà fare i conti con un mondo che non meriterebbe di conoscere. E invece si ritrova lì, tra le braccia di suo padre e con un nome che gli farà portare sempre addosso il peso del suo peccato.
Visto che Gomorra è stata paragonata più volte alle grandi serie americane, ci piaceva l’idea di chiudere questo articolo parafrasando la frase finale di True Detective, pronunciata da un Rust che aveva appena ritrovato un briciolo di fiducia nell’umanità:
“Se me lo chiedessi, ti direi che l’oscurità sta vincendo.”