La fine di un’epoca.
Scorrendo i libri di storia ci rendiamo conto che sono soprattutto le tragedie a segnare gli eventi del percorso umano. Certo, alcune grandi conquiste aiutano a determinare quando l’uomo si sia lasciato alle spalle certi momenti della propria esistenza, ma per qualche motivo sono sempre le catastrofi a segnare la fine dei momenti migliori.
Una di queste fu senza dubbio la tragedia del Titanic. Sulla fine di questa nave colossale sono stati gettati fiumi d’inchiostro, utilizzate montagne di pellicola e si è parlato per oltre un secolo, proprio per l’enorme impatto che ha avuto a livello mediatico un simile evento.
Forse perché l’inabissamento di quella che era, in quel periodo storico, la massima espressione dell’intelligenza umana, ha segnato la fine di un momento di assoluta fiducia verso il progresso scientifico, un’esaltazione dei prodotti e della capacità della mente umana incarnata dal pensiero comune presente nella Belle Époque, secondo cui all’uomo tutto era concesso, persino sfidare le leggi stesse di una natura matrigna che fino a poco tempo prima l’aveva dominato.
Il Titanic, sin dal nome, incarnava questo. Una sfida, uno schiaffo in faccia a quella forza primitiva e insondabile che era l’oceano, capace da sempre di costituire una barriera alle ambizioni umane. Ma, come tutti i titani, anche il colosso della White Star Line fu costretto, in quella fatidica notte tra il 14 e il 15 Aprile del 1912 ad arrendersi al ghiaccio, all’acqua, al sale. Una sconfitta che portò con sé 1518 persone, a cui ne seguirono presto altre tra i sopravvissuti subito dopo il salvataggio.
L’inabissamento del Titanic viene visto da molti storici come un preludio di quello che sarebbe successo in pochi anni con l’avvento della Prima Guerra Mondiale, quel senso di sfiducia generalizzata verso l’essere umano e le sue capacità, così insignificanti in confronto al suo ego smisurato, causa di rovina e di sconfitta. Un inabissamento che è anche un volo di Icaro, con l’uomo che tenta una sfida troppo grande per quelle che erano le sue forze.
Ma è stato davvero così? La fine del Titanic è dovuta solo all’arroganza umana? O c’è di più? Inoltre, nel momento della tragedia, non possiamo dimenticare anche frammenti di umanità incredibile, che nelle ore più buie costituiscono le luci più radiose dell’essere umano. La sua incrollabile volontà di vivere, la sua capacità di sacrificarsi per qualcosa che ama e la serena accettazione dell’inevitabile.
Cerchiamo di ricostruire il primo e ultimo viaggio del Titanic. Salite a bordo con noi e proviamo a capire cosa abbia rappresentato questo possente transatlantico per gli esseri umani, quali siano state le cause della sua fine e quale eredità, la sua terribile tragedia, abbia poi consegnato ai posteri.
Inno alla scienza e alla bellezza.
Inutile girarci attorno. La creazione del Titanic e delle sue navi gemelle, l’Olympian e il Gigantic (poi ribattezzato Britannic), fu per prima cosa una questione economica. La compagnia che commissionò la costruzione di questa imponente nave, la White Star Line, era stata per lungo tempo la regina incontrastata nelle rotte transatlantiche. Eppure, negli ultimi anni, le cose non stavano andando benissimo.
La rivale Cunard Line aveva inaugurato, nell’estate del 1906, due transatlantici di gran lusso, il Lusitania e il Mauretania, imponendosi sul mercato con prepotenza. Cosa fare per riprendere piede? Semplice: surclassare la concorrenza.
James Bruce Ismay, amministratore delegato della WSL, decise di dare il via al “progetto Olimpo”, ovvero la costruzione di tre navi che fossero più grandi, più belle e più lussuose di quelle della compagnia rivale. Nel 1907, pochi mesi dopo il varo della Mauretania, si incontrò con Lord William Pirrie, presidente della società di cantieri navali Harland & Wolff Company, e insieme progettarono questi tre colossi, affidandone il disegno all’architetto navale Thomas Andrews.
Sin dai nomi coinvolti il Titanic e le sue sorelle dovevano essere il meglio. Non solo dal punto di vista estetico e del lusso. Anche la tecnologia messa a disposizione di questi giganti del mare doveva essere la migliore, consentire alle navi di essere più veloci, manovrabili e sicure di qualsiasi altro mezzo avesse mai solcato i mari. Oggi siamo soliti ridere, in maniera forse crudele ma comprensibile, del soprannome del Titanic, Inaffondabile. E, in effetti, sulla carta non c’era altro soprannome per questa nave: il progetto della nave prevedeva una serie di paratie stagne che si sarebbero dovute chiudere ermeticamente a una velocità mai progettata prima in caso di incidente. Ma, ovviamente, questo non bastò a salvare la nave.
Per completare i lavori , dal momento dell’impostazione, ci vollero circa tre anni, con il varo che venne eseguito nel 1911, a cui seguì l’inaugurazione un anno dopo. Niente di simile era mai stato visto sulla faccia della Terra: uno scafo 268,83 metri di lunghezza e 28 di larghezza, con un un’altezza pari a 53,3 metri, il tutto con un pescaggio di 18 metri, per una stazza complessiva di 46.328 tonnellate.
Anche la potenza della nave non aveva paragoni, potendo navigare a una velocità fino a 24 nodi (ovvero 44 km/h), grazie a una forza trainante di 16.000 cavalli di potenza. Questa forza impressionante era generata da una propulsione a vapore, azionata dai due motori più grandi mai costruiti, ancora oggi senza pari nella storia delle creazioni umane. Il Titanic vantava un totale di 29 caldaie, in grado di bruciare poco più di 700 tonnellate di carbone al giorno e azionata dalla Black Gang, i macchinisti preposti al funzionamento continuo di questa meraviglia della tecnologia e della mente umana.
Ma le dimensioni non erano la sola cosa a rendere grande il Titanic. Tutto, all’interno del transatlantico, era studiato per essere semplicemente il meglio che una nave potesse offrire.
Già dall’ingresso, col celebrato scalone di prima classe, l’arredamento del Titanic trasmetteva bellezza e maestosità ai suoi occupanti. Dagli ambienti della prima classe fino a quelli della terza, concepiti per essere più decorosi dei corrispettivi delle altre compagnie, tutto nel Titanic gridava all’eccesso, alla grandezza. Le stanze destinate ai viaggiatori più ricchi erano state concepite secondo diversi stile di arredamento, dal Luigi XVI al Rinascimento Italiano, fornendo in un certo senso un’esperienza di viaggio “personalizzata” per i ricchi papaveri che avrebbero percorso la rotta atlantica.
Ultimo tocco che la White Star Line decise di dare per mostrare la grandezza della propria nave fu la scelta del capitano, Edward John Smith, giunto a fine carriera e con quarant’anni di esperienza alle spalle, considerato dall’opinione pubblica il miglior lupo di mare in attività nella marina britannica. La carriera di Smith era stata adombrata, l’anno prima, dal primo incidente serio avvenuto al comando di una delle sue navi. Il capitano, al comando della RMS Olympic, altra nave della White Star, si trovò coinvolto in uno speronamento con l’incrociatore HMS Hawke. Pur senza alcuna imputazione e con i tribunali che assolsero il comandante, per Smith si trattò di un brutto colpo. Forse fu proprio questo che lo spinse a concludere la propria carriera, ma non prima di aver portato in porto la sua ultima nave.
Il viaggio e l’incidente.
Il Titanic lasciò Belfast il 31 Marzo 1912. Raggiunse quindi il porto di Southampton, da cui sarebbe salpato per raggiungere New York il 10 Aprile. Il viaggio non partiva sotto i migliori auspici. La partenza era stata posticipata di dieci giorni per colpa di alcune riparazioni straordinaria di un’altra nave della WSL; inoltre, al momento della partenza, il risucchio della nave fu tale da rompere gli ormeggi di un bastimento ormeggiato lì vicino, il New York (la grandezza del Titanic era qualcosa di così inconcepibile per l’epoca che nessuno pensò a quali effetti potesse avere sulle altre navi alla fonda); per finire regnava un certo malumore tra gli ufficiali, dovuto all’inserimento nell’organigramma di un nuovo comandante in seconda, Henry T. Wilde, cosa che comportò l’allontanamento del secondo ufficiale, David Blair (proprietario dell’unico paio di binocoli presenti sull’imbarcazione).
Nonostante i numerosi eventi che, a posteriori, possono essere letti come presagi di sventura, il viaggio iniziava all’insegna del buonumore e della spensieratezza per il gran numero di passeggeri di prima classe riuniti sulla nave e della speranza per quanti stavano lasciando il Vecchio Continente per arrivare nel Nuovo Mondo in cerca di fortuna.
Il viaggio proseguì senza problemi per i primi giorni. Fu effettuato lo scalo in Francia, a Cherbourg la sera stessa e, il giorno dopo, la nave giunse a Queenstown, l’attuale Cobh, da cui riparti nel primo pomeriggio dell’11 Aprile. Da lì in poi il transatlantico affrontò l’oceano, percorrendolo a una velocità inaudita. Mai, prima di allora, una nave di quella mole si era dimostrata tanto veloce.
La tabella di marcia del Titanic era in netto anticipo. La nave, a quella velocità sostenuta, sarebbe giunta in porto un giorno prima, cosa fortemente caldeggiata da Ismay. Per l’immagine della White Star Line non era un semplice capriccio quello di giungere a New York così presto. All’epoca, per le navi passeggeri che percorrevano la rotta atlantica, c’era in palio l’ambito Blue Riband, riconoscimento consegnato a quelle navi che stabilivano un record di velocità nell’attraversare l’oceano. Il premio non veniva assegnato alla WSL dal 1891, mentre la rivale Cunard era riuscita ad aggiudicarselo per ben cinque volte di fila.
Ismay e Smith passarono il pomeriggio del 14 Aprile a discutere della velocità che doveva tenere la nave, che fino a quel momento si era aggirata su una media superiori ai 20 nodi. Non è tutt’ora chiaro chi abbia preso la decisione di mantenere quella velocità, se il capitano Smith, forse desideroso di dare un ultimo riconoscimento alla sua carriera, o l’amministratore delegato della WSL; certo è che questa, insieme alle numerose segnalazioni ignorate di iceberg sulla rotta della nave, contribuì al disastro.
La sera del 14 Aprile fu eccezionalmente fredda e molto serena. Tuttavia, essendo una notte di novilunio, la visibilità era scarsa. Il comandante Smith aveva lasciato al suo secondo il comando del Titanic, ritirandosi, come lecito, nella propria cabina verso le 23. Stando ad alcune ricostruzioni alle vedette era stato fatto presente di fare attenzione a eventuali banchi di ghiaccio presenti sulla rotta, tuttavia i mezzi di avvistamento, colpevole l’assenza di binocoli e la notte straordinariamente buia, resero impossibile avvistare l’iceberg in tempo.
Le recenti ricostruzioni fatte col computer sostengono che non fosse possibile avvistare l’iceberg prima di 400-550 metri circa di distanza, troppo tardi per evitare l’impatto alla velocità sostenuta dal Titanic in quel momento. Fu Frederick Flee, una delle due vedette, ad avvistare il gigante di ghiaccio. L’uomo, tra i pochi ufficiali sopravvissuti, raccontò di aver avvistato l’iceberg indirettamente, come un’interruzione nera delle stelle sulla linea dell’orizzonte. Immediatamente gridò “Iceberg dritto a prua!” per due volte, facendo risuonare la campana. Erano le 23:40 del 14 Aprile.
In sala di comando il primo ufficiale Murdoch, forse istintivamente, fece virare la nave. La decisione fu, secondo molte ricostruzioni, fatale. Se l’impatto col ghiaccio fosse avvenuto contro la prua, la parte più solida della nave, il colpo non avrebbe causato l’affondamento. La decisione di spostarsi fece sì che il colpo avvenisse di “striscio”, tuttavia sufficiente a danneggiare lo scafo del Titanic sotto la linea di galleggiamento, sfaldando le lamiere con violenza e aprendo sei diverse falle che permisero all’acqua di penetrare. I compartimenti stagni erano stati danneggiati, ben oltre quanto previsto nel peggior scenario possibile dai progettisti.
Tuttavia l’impatto non venne avvertito dalle persone a bordo. Sia in prima che in seconda classe il colpo quasi non fu udito; in terza classe, al contrario, fu percepito più chiaramente, ma non come qualcosa di così devastante da poter compromettere la governabilità e il galleggiamento della nave.
L’equipaggio del Titanic tentò di chiedere subito aiuto. All’orizzonte era stata avvistata la luce di una nave ferma alla fonda, forse per paura dei ghiacci. Era il piroscafo Californian, che però non rispose mai alla richiesta. Il perché non fu mai chiarito. La nave era solo a 19 Km dal transatlantico, ma il malfunzionamento della radio del piroscafo e gli errori nel lancio dei razzi di segnalazione da parte del Titanic impedirono i soccorsi che, nel caso, avrebbero garantito la sopravvivenza di tutte le persone a bordo.
Il Titanic affonda.
In effetti nei primi momenti dopo la collisione non ci fu un’immediata comprensione del danno devastante che era stato causato dall’impatto col ghiaccio.
La collisione era avvenuta sotto il livello del mare, non dando la percezione che la nave fosse stata danneggiata. Svegliato, il capitano Smith fece chiudere le paratie stagne e scandagliare la nave e solo allora ci si rese conto del disastro che era appena avvenuto. Le sei falle interessavano cinque compartimenti della nave, uno più di quelli che la nave avrebbe potuto sostenere. Il Titanic, inoltre, iniziò a inabissarsi dalla parte della prua, rendendo inutili le pompe idrauliche che avrebbero potuto salvarlo.
In un primo momento l’azione delle pompe e delle paratie stagne, prontamente abbassate, sembrò stabilizzare la situazione. La nave sembrava semplicemente incagliata nel ghiaccio e, nonostante avesse imbarcato acqua (e nonostante il suo volume crescesse molto rapidamente) sembrava ancora in grado di arrivare in porto. Delle ventinove caldaie solo otto erano danneggiate. I motori vennero riaccesi e, secondo alcune ricostruzioni, questa scelta, operata dal comandante Smith, velocizzò l’inabissamento della nave.
Le prime vittime furono tra i membri della Black Gang, i macchinisti del transatlantico. La loro opera permise alle caldaie di sfogare il vapore, consentendo alla nave di non esplodere. Non è sbagliato dire che il loro lavoro abbia salvato molte vite, impedendo alla strage di essere più vasta di quanto non sia stata. Permise inoltre di rallentare il flusso dell’acqua verso la sala macchine e il quadro elettrico, consentendo all’elettricità di favorire l’evacuazione della nave. Un’operazione pagata a caro prezzo, poiché la fuoriuscita dei vapori compromise l’evacuazione dei locali caldaie e nessuno dei macchinisti sopravvisse.
Nel frattempo, sul ponte di comando, il capitano Smith venne raggiunto dal progettista del Titanic, Thomas Andrews, il quale sentenziò che la nave era ormai spacciata. In un’ora, due al massimo, il transatlantico sarebbe affondato. La sfida di Smith divenne perciò quella di rallentare il più possibile l’allagamento della nave che, inesorabilmente, sta iniziando a inclinarsi, sollevando sempre di più la poppa. Lo scopo era quello di far arrivare i soccorsi, ma la nave più vicina, la RMS Carpathia, era troppo distante per poter soccorrere i passeggeri prima dell’inevitabile.
Venne così dato l’ordine di evacuare il Titanic, dando priorità a donne e bambini, con gli ufficiali a cui viene imposto di far rispettare questa regola alla lettera. Il clima, forse proprio per l’opera dell’equipaggio, in un primo momento apparve piuttosto rilassato. Ai passeggeri fu chiesto di salire in coperta, mettendosi i giubbotti di salvataggio. Alcuni, tuttavia, non lo fecero; altri prendevano la cosa con scarsa serietà, come fosse un’esercitazione. Molly Brown, in un’intervista rilasciata poco tempo dopo al New York Times, racconta di quei momenti, definendoli irreali, raccontando di come la gente non avesse la percezione di quello che si stava consumando. Le persone, con indosso i salvagenti, passeggiavano per i ponti, fumavano, conversavano tra loro e bevevano drink.
Fu solo quando le lance iniziarono a calare che la situazione sembrò cambiare. La distribuzione delle scialuppe era ed è tuttora uno dei punti maggiormente sotto accusa nella tragedia del Titanic. Il numero delle imbarcazioni di salvataggio era esiguo (solo sedici) tuttavia in regola con le norme dell’epoca e, anzi, in soprannumero, considerate anche le lance pieghevoli (per un totale di venti). Il calcolo dei mezzi necessari all’evacuazione, non veniva fatto in base al numero di passeggeri, ma sul tonnellaggio della nave. Alcuni sostengono che un maggior numero di scialuppe non avrebbe comunque salvato i passeggeri, ma non si può ignorare la scelta di Ismay di eliminare 28 delle lance previste inizialmente da Andrews.
Un nostro connazionale sopravvissuto alla tragedia, il marinaio Antonio Bardetta (il quale si attribuì la frase «Nemmeno Dio potrebbe affondare questa nave»), raccontò inoltre al Secolo XIX di come le persone fossero state distribuite malamente sulle scialuppe, causando non pochi problemi ai sopravvissuti. La prima scialuppa venne calata in mare alle ore 0:40, un’ora dopo la collisione.
Nel frattempo la nave si inclinò sempre di più. A due ore dall’impatto il ponte di prua iniziò a inabissarsi, quando sulla nave erano presenti ancora circa 1500 persone. I passeggeri rimasti cercarono di assaltare le lance rimaste, costringendo alcuni ufficiali a fare fuoco in aria per disperdere le persone.
La gente a bordo aveva preso ormai coscienza della situazione. Tra questi c’è anche l’orchestra, di cui viene celebrato il coraggio per aver deciso di suonare fino all’ultimo momento nel tentativo di tranquillizzare le persone. Divenuti, in seguito, un’icona della tragedia, la loro figura forse è proprio tra quelle che dovrebbe suscitare maggiore ammirazione nell’immaginario collettivo dell’evento. Grazie alla loro musica gli ultimi momenti di molte persone furono, forse, meno tragici.
Verso l’1:30 la prua era completamente inabissata. È difficile anche solo immaginare cosa volesse dire muoversi su una nave così inclinata. Quei passeggeri ormai consapevoli di non potersi salvare cercano disperatamente di trovare rifugio a poppa, mentre ovunque si consumavano a scene di coraggio, galanteria, amore, follia e inevitabile codardia.
Tra questi James Bruce Ismay, il presidente della WSL, il quale a più riprese cercò di salvarsi la vita, prima tentando di tagliare le funi di una scialuppa per calarsi in mare, venendo aspramente ripreso da uno degli ufficiali, quindi nascondendosi su una delle lance pieghevoli.
Allo stesso tempo, il Capitano Smith decise di andarsene con un ultimo gesto di dignità. Dopo aver raccomandato al proprio equipaggio di comportarsi in modo “britannico” («Be british!»), li liberò da ogni impegno, annunciando il “si salvi chi può”. Secondo la nota tradizione marinara, il capitano rifiutò di raggiungere le scialuppe, morendo in plancia. C’è chi ha voluto ammantare i suoi ultimi momenti di eroismo, descrivendo come sia morto in acqua, confortando con le sue ultime parole le persone a resistere all’assideramento; altri raccontano di come abbia ceduto il proprio posto sulla scialuppa a un bambino prima di ritirarsi sul ponte di comando. Tutti sono concordi nel dire che il modo con cui si concluse la vita di Edward John Smith fu sinonimo di dignità e dedizione alla propria carriera. Il suo corpo non fu ritrovato.
Anche Thomas Andrews, creatore del Titanic, affondò con esso. Un cameriere lo vide nella sala fumatori, intento a osservare un dipinto. Lo chiamò, cercando di guidarlo alle scialuppe, ma l’uomo sembrava in stato catatonico, incapace di rispondere agli stimoli esterni. Per tutta la durata della tragedia aveva confortato i passeggeri nel tentativo di non far scoppiare il panico, lasciandosi quindi andare verso gli abissi con la sua ultima e più grandiosa opera.
Alle 2:00 la prua fu completamente sommersa, mentre la poppa si era sollevata fino a creare un angolo di 30° con l’acqua. Solo in quel momento una moltitudine di persone riuscì ad arrivare sul ponte delle lance: si trattava dei passeggeri di terza classe, ai quali era stato forse impedito l’accesso ai ponti superiori. Nell’inchiesta svolta c’è chi ha sostenuto che in effetti l’equipaggio abbia rallentato il convogliarsi dei passeggeri di terza classe in coperta; a discolpa dei marinai e degli addetti del Titanic, c’era la volontà di non sovraccaricare il ponte, oltre alla difficoltà che potevano avere i passeggeri nel districarsi dal labirinto che erano i ponti inferiori della nave, da cui era difficile trovare una via d’uscita in condizioni normali (figuriamoci in preda al panico): resta tuttavia arudo credere che sia bastato tanto a impedire alla gente di trovare la strada per il ponte lance. Pochi minuti dopo i locali con il quadro elettrico vengono invasi dall’acqua: le luci del Titanic si spesero alle 2:15.
Poco prima dell’inabissamento lo scafo del Titanic fu sottoposto a una pressione di circa tre tonnellate. Non essendo progettato per sopportare una simile forza il transatlantico si spaccò in due, spinto dal peso della prua allagata. Questo velocizzò l’inabissamento, spingendo in alto il troncone della poppa, facendogli formare un angolo di 90° con l’acqua.
I sopravvissuti a bordo delle lance raccontarono della scena terrificante del Titanic che si innalzava, restando per qualche tempo perpendicolare prima di affondare. Erano le 2:20 del 15 Aprile 1912 quando il Titanic fu reclamato dagli abissi dell’Oceano Atlantico.
Ci vollero ancora due ore perché la Carpathia raggiungesse il luogo della tragedia per portare in salvo i sopravvissuti. Nel gelo dell’Atlantico, dove la temperatura si aggirava attorno allo zero, un individuo al massimo della forma fisica non sarebbe stato in grado di sopravvivere per più di quindici minuti.
Furono 706 i superstiti. 1518 le vittime.
L’eredità del Titanic.
La tragedia del Titanic colpì violentemente l’opinione pubblica. In breve tempo furono aperte due commissioni d’inchiesta, una inglese e una statunitense, allo scopo di determinare le responsabilità di un simile evento.
Tra i capi di accusa principale contro la nave ci furono lo scarso numero di lance, battaglia sostenuta dal senatore americano William Alden Smith, oltre a una scarsa capacità di virare del timone del Titanic, troppo piccolo per una nave di quel tipo.
In entrambi i casi il Titanic si era limitato a rispettare lo standard imposto dalle leggi in vigore, senza che essi fossero adeguati alla stazza e al numero di passeggeri della nave. Questo costrinse il diritto navale a rivedere questi aspetti. L’anno successivo si riunì a Londra la Prima convenzione internazionale sulla sicurezza della vita in mare. La strage del Titanic comportò un certo numero di prese di ammodernamenti sulle navi.
Un esempio si può trovare, quarantaquattro anni dopo, nel disastro dell’Andrea Doria, lussuosa nave italiana speronata dalla svedese Stockholm. Se si escludono i morti causati dall’impatto della disgraziata manovra (46 passeggeri nella nave italiana, 5 in quella svedese) solo una persona non riuscì a essere tratta in salvo dai soccorsi.
Intanto iniziò la corsa al ritrovamento del relitto. Già nel 1912 vennero effettuati rilevamenti che stimarono la profondità a cui si trovava il relitto a circa 3800 metri, ma fu solo nel 1985 che una spedizione, guidata da Jean-Louis Michel e Robert Ballard riuscì a ritrovare il relitto e mandare in esplorazione un sommergibile per guardarlo da vicino.
Dal momento del ritrovamento si generò anche un contenzioso sugli oggetti ritrovati al suo interno. Alcuni di essi erano di valore e fu necessario risolvere la cosa per vie legali. Altri ritrovamenti vennero inviati a una società francese, specializzata nel restauro di reperti navali.
Nel frattempo il mito del Titanic si era diffuso a macchia d’olio nel mondo delle arti. Nella fotografia, nella pittura ma, soprattutto, nel cinema.
Diverse sono state le trasposizioni della tragedia, talvolta utilizzate anche a fini propagandistici, come il film del 1943 realizzato in Germania sotto l’occhio vigile del ministero della propaganda, il cui scopo era mettere in ridicolo inglesi e americani, all’epoca nemici nel secondo conflitto mondiale, per la loro codardia e inadeguatezza. Questo non è l’unico tentativo di speculare su questo fatto avvenuto nel corso degli ultimi cento anni: c’è anche chi ha tirato in ballo complotti governativi e banche, cercando di vedere l’intera storia sotto una luce diversa, politica. Cosa che, al momento attuale, trova poche conferme.
Ma la maggior parte delle pellicole si è sempre dimostrata comprensiva del lato umano, cercando di dare sempre il giusto risalto a una vicenda macchiata sì da incompetenza, ma dove si sono avute anche straordinarie dimostrazione delle spirito umano. E, tra queste, non possiamo non citare il capolavoro di James Cameron, quel Titanic che, nel 1997, commosse il cuore e le menti delle persone, trovando non solo il plauso della critica e del pubblico ma, soprattutto, di quanti discendevano dalle vittime di quel dramma e di chi, invece, era sopravvissuto, magari vedendo sparire una persona cara nelle gelide acque dell’oceano.