Uno sguardo veloce a Distopie ed Ucronie
La regola di causa-effetto, il principio di azione-reazione spingono in maniera ineluttabile la nostra esistenza, facendola rimbalzare a rotta di collo, inesauribile, in quella lunga discesa a senso unico governata dal tempo. La parte veramente difficile è prevedere dove si andrà a cadere e cercare di rimanere in piedi il più a lungo possibile. Molte menti creative si sono poste la domanda su dove stiamo andando e come finiremo, trovando le risposte più disparate, argomentando queste risposte con saggi, romanzi, racconti, idee su un futuro che forse non si avvererà mai, ma che potrebbe essere possibile. E’ di questo in sostanza che si nutre una buona fetta della fantascienza: esplorare tutti i bivi, le intersezioni e le variabili storiche e provare a interpretarle come una enorme palla di vetro piena di tarocchi sfocati.
I risultati di queste divinazioni romanzesche possono portare verso un futuro roseo, perfetto, preciso, dove il sole è sempre alto nel cielo della società, quello che viene etichettato come Utopia: il migliore dei mondi possibili. Su questo vorrei fare una piccola considerazione, soprattuto sull’etimologia della parola. La U prima di topia è un prefisso privativo, serve in pratica indicare un luogo (topos) che non esisterà mai. Tutto questo è bellissimo. L’uomo ha pensato a un luogo fantastico in cui tutti vorremmo vivere e nel dargli un nome ha chiaramente capito che un luogo del genere non esisterà mai. L’ironia insita in questa affermazione è a dir poco esilarante, un’ammissione di colpa che coinvolge l’intera umanità, rea di non poter realizzare mai il sogno di vivere felice…
Dopo questa digressione, passiamo all’argomento clou, quello delle distopie. In pratica, anche se poi non è propriamente corretto, sono il contrario delle utopie. Insomma, immaginate uno scrittore che si guarda intorno e si chiede: ‘Quale sfiga posso buttare sul genere umano?’ e puntualmente il mondo si popola di giganteschi pupazzi dei MarshMallow vestiti da marinai pronti a decimare gli uomini e le donne e fare delle nostre città un cumulo invivibile di macerie. Ecco più o meno come nasce una distopia: si parte da una serie di cause esistenti e si generano effetti devastanti per creare un teatro cupo e sfilacciato in cui far vivere i nostri attori.
Le distopie sono a tutti gli effetti gli incubi socioeconomici, apocalittici e politici in cui potremmo incappare se qualcosa da qualche parte va veramente storto. E’ la legge di Murphy ai massimi livelli applicata alla storia e all’umanità. I racconti distopici (su qualunque media essi vengano sviluppati) fanno paura per la loro sconvolgente veridicità, perché la prima cosa che viene in mente è: ‘Cazzo, potrebbe succedere…’. Certo, per dovere di narrazione e di spettacolarità, spesso gli sviluppi tendono a stemperare questo sentimento di disagio, a favore di qualcosa di più cartoonistico, ma resta comunque il cattivo gusto di aver appena mangiato un esperimento sociologico venuto male, le cui conseguenze sono forse a un passo dalla nostra finestra di casa.
Dove e Quanto
Perché le distopie funzionano, tanto da farci rimanere incollati alle pagine o alla tv? Cosa hanno di tanto speciale? In pratica, quando una distopia funziona tanto da prendere lo spettatore per la gola e non lasciarlo andare mai?
Gli ingredienti sono tanti e le variabili ancora di più. E va da sé, non esiste una regola fissa né tanto meno un set di suggerimenti. Possiamo accontentarci di vedere quello che è stato fatto finora e cercare di tirare le somme. Non ho le competenze per insegnare a nessuno come fare una cosa del genere, ma mi limiterò a condividere le considerazioni che mi sono fatto nel corso di anni di letture.
Uno degli aspetti che mi ha sempre affascinato è la contrapposizione tra due orizzonti e due prospettive diverse che si affiancano nella narrazione. Il racconto distopico si gioca sempre su molteplici livelli narrativi più o meno visibili e vistosi. Il più ovvio e il più diretto è quello intimo che coinvolge i protagonisti, nella loro quotidianità. Parliamo ovviamente in generale, ci riferiamo al rapporto che gli eventuali personaggi hanno con il momento storico infelice che stanno vivendo. Sono i loro gesti che tratteggiano la gravità della situazione in cui sono stati calati, dando un’idea di quello che sta succedendo lontano da loro, pallida eco di una devastazione su scala nazionale e mondiale.
Da questo punto si eleva il punto di vista per mostrare il vero volto della distopia, quella che inchioda l’intero genere umano. Il bello è che questa prospettiva ampia talvolta non è neanche veramente citata del tutto, ma aleggia come uno spettro su tutta la storia. Spesso non si sa neanche perché si è arrivati a perdere di vista completamente la civiltà così come noi la conosciamo. Leggete per l’occasione il capolavoro di McCarthy ‘La Strada’ e capirete cosa intendo. In quel libro non si ha nessuna nozione su quello che è successo prima, ma semplicemente si capisce che le cose sono veramente andate a puttane, tanto che le strade sono ormai terra di nessuno, dove un’umanità imbarbarita oltre ogni immaginazione prova a sopravvivere ai danni del più debole, in barba alla proverbiale ricerca della felicità.
Certe caratteristiche non si trovano nei romanzi ambientati nel nostro periodo storico perché il bagaglio culturale e delle nostre esperienze ci permette automaticamente di colmare i vuoti descrittivi, riusciamo a calarci nella realtà storica raccontata immediatamente, tanto da non far caso all’ambiente, se non diversamente redarguiti dal narratore. In un romanzo distopico, l’aspetto delle descrizioni, la portata degli eventi (apocalittici, sociali, economici, energetici) è talmente ampia da diventare a tutti gli effetti un personaggio a se stante, con un ruolo di primissimo piano, quasi filo conduttore degli eventi.
A questo aggiungiamo un altro particolare che mi ha sempre lasciato entusiasta nei racconti distopici, ed è l’ambientazione. C’è sempre quel godimento un po’ vergognoso che accompagna la lettura di un posto peggiore di quello in cui viviamo. Inutile girarci intorno, fa parte del gioco, leggere o vedere un luogo impervio e inospitale in un certo qual modo ci rincuora, ci fa pensare ‘Meno male che io sto qua. Sì, fa schifo, ma non così schifo! Poteva andarmi peggio…’ e così via. Il racconto distopico rispetto a quello più strettamente utopico ci fa fare i conti con la nostra realtà, quasi facendocela apprezzare, bilanciando il senso di inadeguatezza geografica che possiamo provare con un pool di immagini devastate. Una sorta di contrappasso emozionale: leggere delle disgrazie di un altro mondo, ci fa godere delle piccole cose che abbiamo qui.
E’ una cosa che dura poco, però. E’ inevitabile. Infatti, dopo l’iniziale ‘meglio a loro che a me’, sopraggiunge il cortocircuito, la rivelazione e la domanda più cattiva che uno possa porsi: ‘E se succedesse veramente?’. Beh, perché le vere distopie, come già detto, partono da presupposti verosimili, da premesse che poggiano solidamente sul nostro presente. L’idea che tutto possa andare veramente a puttane automaticamente spaventa il lettore e lo porta in una spirale di angoscia e paranoia. La grandezza delle ambientazioni sta nella potenza delle immagini evocate e nella pertinenza con cui vengono descritte. La cosa davvero spaventosa è la distruzione dei simboli a cui siamo abituati: vedere San Pietro diroccata, o la Torre Eiffel arrugginita e sbilenca, accartocciata su se stessa fa male! Oppure vedere deturpati da messaggi politici luoghi in cui certe parole non dovrebbero essere presenti, come è avvenuto per The Man in The High Castle (leggete la recensione…) rende quasi sgradevole la visione (o la lettura) di certi passaggi. E ancor di più, vedere l’uomo che a causa di un ambiente inospitale e decadente lascia anni di evoluzione e civiltà per ritornare in men che non si dica al suo aspetto primordiale di predatore intelligente, dove nessuno è al sicuro e tutti sono prede.
Avanti o indietro nel tempo
Per concludere questa piccola digressione sulle distopie, parliamo dell’aspetto storico e temporale di questo tipo di narrazioni. Abbiamo messo l’accento sul fatto che le storie narrate sono ambientate nel futuro, più o meno prossimo, ma pur sempre futuro. E’ importante questo particolare: le distopie descrivono luoghi, persone e vicende che si devono ancora avverare, sono dei racconti divinatori. Hanno una premessa calcata da qualche parte nel nostro presente, e poi si snodano verso un tempo lontano da noi per raccontarci come potrebbe andare.
Ma non è sempre così. Tra i vari filoni della fantascienza che giocano con la storia c’è quello dell’Ucronia. E’ uno dei più interessanti da punto di vista narrativo e parte dalla domanda inglese: What if? In italiano, diventa quella cosa lunghissima: che succederebbe se?… In pratica si prende un avvenimento clou della storia dell’umanità, uno di quelli che hanno davvero cambiato il corso della vita così come la conosciamo, roba tipo la Rivoluzione Francese, la battaglia di Waterloo, la fine della Seconda Guerra Mondiale, e si cambiano le carte in tavola, cercando di immaginare un seguito e un universo alternativo.
A pensarci bene, la migliore descrizione di ucronia ce l’abbiamo avuta per anni sotto gli occhi e ce l’ha data il buon vecchio Doc Brown durante Ritorno al Futuro 2, quando descrive la realtà alternativa dove Biff è padrone di Hill Valley grazie alle sue vincite al casinò. E’ tutto lì: un avvenimento prende una piega diversa da qualche parte nel corso del tempo, e il futuro da quel momento in avanti viene modificato e si allontana da quello che noi conosciamo.
Questo tipo di esercizio è molto in voga, tanto che ci sono dei siti che si occupano espressamente di questo tipo di speculazioni, cercando di inventare tanti universi diversi quante sono le variabili. D’altronde, quante volte abbiamo pensato a cosa sarebbe successo se avessimo fatto una scelta diversa all’università, o al lavoro, soppesando tutte le conseguenze del caso? Ora ingigantite questo ragionamento a livello mondiale, e provate per un attimo a contare tutte le variabili che entrano in gioco nel capire le conseguenze di un singolo avvenimento. Sempre ritornando alla recensione di The Man in The High Castle, lì il momento ucronico è la riuscita dell’assassinio di Roosevelt a opera di Zangara (calabrese naturalizzato americano). Nei nostri libri di storia, il Presidente degli Stati Uniti si salva, mentre nella realtà descritta da Dick, l’omicidio va a segno, con le conseguenze che abbiamo poi visto nel romanzo e nel telefilm. Da questa premessa ucronica, Dick crea un mondo distopico perfetto, dove il ragionamento politico è fantastico e allegorico, chiara denuncia dei tempi in cui lui viveva, gli anni 60 di hippissima memoria.
Quello di Dick è solo l’esempio più recente (grazie al telefilm) che facciamo, ma ne esistono decine e decine, sintomo di come l’uomo ha sempre cercato di capire e carpire lo scorrere del tempo, suo vero nemico invincibile. Gli autori di questo tipo di fiction si comportano come se avessero un occhio dietro la testa per guardare in dietro e un paio davanti per scrutare il più lontano possibile, per capire dove stiamo andando e per rendere noto tutto quello che ci siamo persi.
Concludiamo qui la prima parte di riflessioni sul senso e il significato delle distopie. Ma non è finita qui! Come avrete notato non abbiamo fatto quasi nessun esempio, lasciando il discorso quanto più generale possibile. E c’è un motivo: la prossima parte verterà proprio su uno dei tanti criteri di classificazione delle distopie, con tanto di esempi, ma senza annoiarvi con lunghe liste di titoli e autori, ché tanto ve li andate a trovare su Wikipedia.
Diteci invece cosa pensate voi di questo filone della fantascienza e quanto abbia influito nella vostra vita di lettori/telespettatori/videogiocatori!