Un mondo cupo ma a colori
Il regista Sean Baker ci porta ad Orlando, in Florida, a due passi dall’opulento e sfarzoso mondo di Disney World, dove folle di turisti fanno avanti e indietro tutto l’anno senza sosta. Proprio lì, dove tutto sembra magico, dove c’è un’atmosfera fantastica ed irreale basta spingersi oltre le recinzioni per scoprire l’altra faccia della medaglia, quella dei bassifondi e della povertà, dove c’è chi purtroppo stenta a sopravvivere. È qui che ci porta Baker, con l’occhio distaccato ma sempre presente della sua telecamera, raccontandoci la vita di Halley (Bria Vinaite) e della sua figlioletta Moonee (Brooklynn Prince), e di quelli che ruotano attorno a loro, compreso Bobby (Willem Dafoe), che gestisce il motel in cui vivono tutte queste persone, un luogo semifatiscente ma che mantiene la sua dignità, così come fanno i loro abitanti. Perché la dignità, sembra volerci ricordare Baker, prescinde dall’estrazione sociale e dalla condizione economica.
Gli ambienti malagiati messi in scena dal regista non si manifestano quindi nelle atmosfere grigie e cupe che possiamo aspettarci, ma rappresentano un trionfo di colori che scandisce tutta la pellicola, dal lilla acceso del motel, che pervade lo schermo, fino agli abiti e al look eccentrico e sgargiante dei protagonisti, Halley in primis, che ci ricordano un po’ quelli di Spring Breakers di Harmony Korine, il quale guarda caso era sempre ambientato in Florida.
La ricerca della felicità fa a pugni con le esigenze della sopravvivenza, di far crescere i propri figli e farli stare bene, in queste battaglie quotidiane che passano quindi anche attraverso questa particolare ricerca dei colori operata sapientemente da Baker e la sua troupe, che allegorizzano in questo modo la tenacia di queste persone.
Una tenacia che però a volte si scontra inevitabilmente con l’incoscienza e l’irresponsabilità di una madre giovane, abbandonata anch’essa al suo triste destino e che sente di non poter contare praticamente su nessuno.
Le uniche certezze per tutte queste persone sono costituite da Bobby, un uomo buono che cerca di prendersi cura di loro, come può e nei limiti dei suoi mezzi, nonostante non gli competa e nonostante, sopratutto, venga persino schernito o sfruttato da chi, quasi inevitabilmente, fa di tutto per risparmiare sui soldi dell’affitto della camera o cerca vie traverse per ottenerli.
È bravissimo Willem Dafoe a calarsi in questo ruolo, che non a caso gli vale una tripla candidatura come migliore attore non protagonista agli Oscar, Globe e BAFTA.
In questo contesto si inserisce l’intolleranza e l’indifferenza della gente, che infastidisce e scuote lo spettatore, così come inteneriscono i tentativi goffi e amabili della madre di render felice sua figlia, ma su un binario parallelo troviamo la nostra irritazione per gli atteggiamenti spesso immaturi, sempre della mamma, che arriva persino a prostituirsi per ottenere denaro, ad una porta di distanza dalla figlioletta.
Tutto questo non passa inosservato alla telecamera di Baker, che agisce in maniera silenziosa, rendendo questo film una specie di mockumentary, un racconto di amara vita quotidiana spiato dal suo occhio indiscreto. Ma è soprattutto una storia su come la felicità possa veramente prender vita dalla piccole cose, da quella naturalezza dei bambini che ignari delle problematiche e dei giudizi degli adulti si prendono ciò che viene e come viene, facendo sembrare un gioco l’elemosina di un po’ di spicci per comprarsi un gelato o la vendita per strada di profumi acquistati all’ingrosso, per riuscire a tirar fuori qualche soldo in più. La ricerca degli escamotage diventa quindi una sorta di leitmotiv ed è per questo che funziona perfettamente il modo di girare di Baker, che non annoia mai nonostante potessi esserci il rischio, ma ci proietta totalmente nella dimensione e nei luoghi che ci racconta. L’improvvisazione è dunque, inevitabilmente e paradossalmente, parte integrante dello script ed in questo, manco a dirlo, i bambini fanno scuola. La loro genuinità non ha bisogno di un copione ma di semplici indicazioni, soprattutto in contesti come quelli rappresentati, dove la vita è improvvisazione quotidiana.
Nell’anno di Lady Bird e dei film sulle donne, il tuttofare Baker ci propone un’altra interessante visione del rapporto madre-figlia, di tutte queste donne senza uomini, costrette a trovare espedienti continui ma con una forza d’animo invidiabile in una società non sempre accondiscendente ed in grado di aiutarle, e quando lo fa non sempre è nel modo giusto. Perché, ci ricorda Baker in un finale bello, forte ed intenso, queste madri che vivono situazioni così complesse spesso sono piene di difetti, commettono anche grossi errori, ma il loro amore verso i propri i figli è insostituibile.
Verdetto
In Un sogno chiamato Florida, Sean Baker indaga con l’occhio indiscreto e distante, ma sempre presente, della sua telecamera nei bassifondi di Orlando, l’altra faccia della medaglia di Disney World, a due passi dallo sfarzoso complesso. Qui il regista, con un film che ammicca quasi al mockumentary, ci racconta le storie di donne senza uomini (ad eccezione di Bobby, ovvero il solito eccezionale Willem Dafoe), alle prese con i problemi della povertà e alla continua ricerca di escamotage per sopravvivere. Un’opera che trasuda improvvisazione ma lo fa nel modo più brillante ed autentico, sposandosi perfettamente con la genuinità dei bambini, gli unici che sanno trovare il bello e la felicità anche nelle situazioni intrise di disagio e difficoltà.