Quello che ha un principio…
Anche la terza stagione di Una Serie di Sfortunati Eventi è arrivata sui nostri schermi ed è stata consegnata agli archivi. Tra bassi e alti quella che si afferma come la prima trasposizione completa dell’opera di Lemony Snicket, (pseudonimo di Daniel Handler) è finalmente giunta alla conclusione, il che ci permette di tirare le somme su quanto visto nel corso di queste tre stagioni.
Siamo di fronte a un’opera meritevole di essere vista e ricordata, oppure tra qualche anno ci dimenticheremo della versione Netflix degli orfani Baudelaire e del Conte Olaf di Neil Patrick Harris?
Come ci hanno insegnato i libri è difficile trovare una risposta precisa. Dire sì o no, chiaro o scuro, luce o tenebra non è possibile nella realtà, e questo si traduce anche nelle tre stagioni dello show.
Per farlo però è necessario partire dicendo qualche parola su questa terza e ultima stagione. Ancora una volta vediamo i fratelli Baudelaire impegnati a contrastare i piani di Olaf per mettere le mani sulla loro eredità. Vediamo riprendere la storia esattamente dove si era interrotta l’ultima volta, con Violet e Klaus diretti verso una scarpata e Sunny nelle grinfie del Conte. La storia ricalca in maniera abbastanza fedele gli ultimi libri della serie, portando gli spettatori prima sulla cima del Monte Manomorta, poi a bordo del Queequeg, fino all’Hotel Climax e all’isola di Ismaele. Come visto nella precedente stagione il vecchio schema dei tutori è superato e il nuovo leitmotiv della serie è costituito dai tentativi dei tre orfani di ricostruire il mondo dei VFD, la società segreta di volontari di cui hanno fatto parte anche i loro genitori.
La serie arriva alla fine senza particolari sobbalzi: chi ha letto i libri non si troverà di fronte a grandi cambiamenti, anche alcuni sono stati resi necessari per snellire un po’ l’intera trama e addolcire un poco la conclusione delle sotto-trame aperte nel corso della serie. A fare da collante per le varie storie c’è sempre Patrick Warburton nei panni di Lemony Snicket, nella doppia veste di narratore e comprimario questa volta, accompagnato anche da Allison Williams (già vista in Scappa – Get out), la quale interpreta Kit Snicket, sorella di Jacques e Lemony e ultimo membro dei VFD a interagire con gli orfani.
Non ci sono sussulti fino al finale: lo show procede piacevole, come un pigra giornata di ozio passata a leggere un romanzo, senza sconvolgere troppo lo spettatore. In fondo è questo lo scopo di una trasposizione desiderosa di essere fedele all’originale cartaceo. Come sempre Una Serie di Sfortunati Eventi si distingue per le sue ambientazioni, i suoi personaggi paradossali, per le situazioni al limite dell’assurdo a cui vanno incontro i protagonisti e la verve dei suoi interpreti. Ma risulta inevitabile, arrivati alla fine della terza stagione e alla conclusione naturale dell’opera, farsi alcune domande sulla riuscita dell’intera serie. E la risposta è che Una Serie di Sfortunati Eventi è un prodotto piacevole, assolutamente godibile ma, per molti spettatori, dimenticabile. Va detto che il risultato raggiunto è comunque notevole, specie perché quanto abbiamo visto partiva con notevoli punti di svantaggio e difficoltà.
Quando si traspone un romanzo o, come in questo caso, un’intera saga, per gli sceneggiatori e gli spettatori che conoscono e amano l’opera originale c’è sempre il temuto confronto con quanto scritto dall’autore e la fedeltà del nuovo prodotto a quanto da lui realizzato. Così è stato per Il Signore degli Anelli, così è stato per Game of Thrones e per tante altre opere. Ma in questo caso la serie Netflix non doveva fare i conti solo con il proprio libro di origine.
La prima difficoltà che si presentava di fronte allo sceneggiato era l’inevitabile confronto con il film del 2004, capace di raccogliere buoni pareri dalla critica ed entrato nell’immaginario collettivo grazie alla splendida interpretazione di un colosso come Jim Carrey nei panni del Conte Olaf. Carrey era stato bravo nel dare al personaggio quei tratti istrionici che da sempre hanno contraddistinto la sua carriera, lo aveva reso qualcosa di suo ma mantenendo nel personaggio quell’aura di perfidia machiavellica che doveva avere.
Proprio qui si è giocata la prima partita tra i due prodotti e, inizialmente, l’Olaf di Harris ne era uscito sconfitto: vuoi per l’affetto provato verso il personaggio di Carrey, vuoi per la scelta, sensata, di limitare alcuni dei tratti più vili del personaggio, forse per consentire ad Harris di riconoscersi maggiormente nel Conte e quindi rendere una migliore interpretazione. Questo sembrava aver un po’ snaturato il personaggio di Olaf, facendone un antagonista macchietta piuttosto che un villain vero e proprio, tratto che è andato via via scemando fino al termine della seconda stagione, quando Olaf si è finalmente mostrato per il malvagio manipolatore che è sempre stato.
Di certo un punto a favore di Harris è stato trovare un terreno di confronto neutrale, riproponendo tratti del personaggio non mostrati dall’interpretazione di Carrey. Perché se è vero che Olaf è un malvagio, è altrettanto vero che le persone non sono solo bianche o nere, buone o malvagie. Sono una miscela di tante altre cose, oltre che di bene e male: come le insalate delle chef.
Questo è uno dei concetti cardine dei libri di Handler: spesso le brave persone sono costrette ad agire in maniera poco nobile, così come anche un criminale incallito come il Conte può avere qualche piccola traccia di bontà. E questo basta ad Harris per poter dare il meglio di sé, dare agli spettatori una prova della sua abilità al di là delle sue capacità istrioniche.
Questo però ci introduce a un altro concetto importante: parlare del messaggio dei libri all’interno della serie televisiva. La sfida della trasposizione non si gioca solo in una completa fedeltà alla trama del libro, ma anche nella trasmissione di ciò che l’autore ha voluto dire ai propri lettori. Negli ultimi anni ci siamo trovati spesso di fronte a serie televisive che, pur prendendosi molte libertà dal punto di vista narrativo, hanno dimostrato di saper mantenere intatta l’idea originale del romanzo a cui erano ispirate, preservandone le sensazioni e l’ambientazione.
Sotto molti punti di vista Una Serie di Sfortunati Eventi sembra raggiungere questo scopo: le tematiche dei libri sono mostrate anche all’interno dello show e riproposte in maniera efficace, dando allo spettatore un’idea precisa di quanto abbia voluto trattare Handler nei suoi romanzi.
Abbiamo già citato la relatività morale, ben espressa dalla crudele sentenza del Conte Olaf secondo cui “non esistono persone nobili d’animo”. Ma questa è solo una manifestazione di molte altre tematiche, esprimibile in una vasta critica alla società che attraversa l’intero svolgimento della storia narrata da Snicket.
Nella maggior parte dei casi assistiamo ai Baudelaire costretti a fare i conti con una società che li imbriglia in un sistema ai limiti della follia. Etichettati come orfani prima che come persone, la loro condanna è quella di non essere mai creduti dagli adulti, i quali continuano a sottovalutarli in quanto semplici bambini, ignari delle loro competenze e, spesso, dei loro sentimenti. Gli unici a non sottovalutarli, i Volontari del Fuoco, si ritrovano a loro volta a fare i conti col muro costituito da una società e da leggi restrittive, in cui il singolo uomo viene sacrificato a favore della massa. Questo accade non solo per colpa delle istituzioni, ma anche di quanti si sono talmente identificate in esse da essersi spersonalizzati. In questo un perfetto esempio è Mr. Poe, interpretato da K. T. Freeman: pur non essendo una cattiva persona, l’unico scopo del personaggio è quello di fare carriera. Non viene mai specificato il vero motivo per cui il Signor Poe provi un simile desiderio. Certo, si potrebbe intuire che la volontà sia quella di dare maggiore sicurezza alla propria famiglia, ma più spesso l’impressione è che il banchiere si affanni tanto solo per un’imposizione superiore, perché questo è ciò che ci si aspetta da lui. E questo finisce per legarlo alle pastoie della sua posizione e a renderlo cieco di fronte a quella che dovrebbe essere il suo primo compito, salvaguardare i tre giovani Baudelaire.
Insomma, gli adulti all’interno del mondo costruito da Handler appaiono spesso ottusi e incapaci di comprendere a fondo le persone. La massa dei personaggi sembra priva di empatia, con alcune doverose eccezioni, ovvero quelle persone che alle spalle dimostrano una solida cultura.
I tredici libri di Lemony Snicket sono per prima cosa testi per bambini, contenenti un fine pedagogico per i più piccoli: invogliarli alla lettura e alla cultura, come mezzo per lo sviluppo dell’empatia. E qui la serie ha sotto qualche punto di vista mancato il bersaglio. Partendo dal presupposto che è sempre difficile invogliare le persone alla lettura utilizzando un medium diverso dalla carta stampata, non sempre il messaggio di Handler viene mantenuto bene all’interno della nuova trasposizione di Netflix.
Certo i Baudelaire sono ragazzi diversi dalla massa dei loro coetanei, sono acculturati e per questo più intelligenti e più gentili rispetto agli altri. Queste caratteristiche tuttavia non sembrano essere legate a doppio filo, come è palese nei libri: non sembrano una conseguenza dell’altra. Le cose vanno meglio quando si ribalta la prospettiva e ci si confronta con Olaf. Vuoi per le capacità del suo interprete, vuoi perché si tratta comunque del personaggio migliore dei libri e giocoforza della trasposizione, quando è il Conte a parlare la sua malvagità diventa spesso una manifestazione della sua ignoranza e del suo profondo rigetto per la cultura, anche se non in maniera totalizzante: alla sua passione per il teatro, infatti, è legato uno dei rari momenti di umanità presenti nel personaggio all’interno di questa nuova stagione.
Per concludere la nostra analisi, dobbiamo parlare dell’ultimo tema dei libri di Handler, ovvero la necessità e l’importanza dei segreti. In questo lo show sembra mantenere esattamente la sensazione di incompiutezza dei libri. Arrivati alla fine della storia per Violet, Klaus e Sunny c’è sempre il mancato raggiungimento di una completa conoscenza degli eventi che li riguardano. In un certo senso sembra quasi essere suggerito che la conoscenza va bene, ma non è mai il caso di scavare troppo a fondo certe verità, almeno se non si vuole rischiare un pericoloso effetto domino. Oppure che è impossibile raggiungere una completa conoscenza della vita di una persona, che ci sarà sempre e comunque uno sbarramento per raggiungere il sapere desiderato. A voi le conclusioni su quale dei due messaggi sia più profondo.
Per lo spettatore che non conosce i libri di Snicket la sensazione sarà quella di qualcosa di non concluso, di una importante trama secondaria rimasta aperta. E così è in effetti sotto molti punti di vista, se non fosse che questo era esattamente lo scopo dell’autore. Difficile non mettersi nei panni dello spettatore occasionale in questo caso, percependo quella che potrebbe essere la sua delusione.
Nei fatti questa è una discriminante per il godimento completo della serie. Lo spettatore occasionale, quello che non ha una conoscenza pregressa dei romanzi e che non percepirà quelle che sono le idee di Handler, abbandonerà definitivamente questo show una volta conclusa l’ultima puntata. Al contrario, chi riuscirà a capirne il messaggio di fondo forse tra qualche anno riuscirà anche a ripensare a questo show di Netflix e sceglierà di lasciarsi guidare, ancora una volta, dalla voce profonda di Lemony Snicket in questa Serie di Sfortunati Eventi.