Il piacere delle cose semplici
Quando Unravel fu annunciato sul palco dell’E3 dello scorso anno, io fui tra quelli (a quanto pare eravamo in pochi, se non pochissimi) a non restare affascinato per nulla dal gioco. Sarà che forse, con gli anni, sono diventato sempre più duro verso il videogame, e di certo meno suscettibile alle emozioni facili, fatto sta che dove il resto della stampa sembrava vederci chissà cosa, io ci vedevo solo un platform qualunque, con uno stile che (in parte) poteva essere aderente a due correnti di pensiero: il ritorno ai personaggi pupazzosi “inaugurato” da LittleBigPlanet, e la recente trovata di Nintendo di trasformare i personaggi in gomitoli lanosi, trovata che con Kirby e Yoshi ha anche avuto un discreto successo.
Un detto, piuttosto antico, dice però che “non si giudica un libro dalla copertina”, e benché io non ci creda granché (nella mia esperienza so, storpiando un altro detto, che “l’abito fa sempre il monaco”) mi sono poi trovato tra le mani un gioco con un gameplay molto solido ma anche emotivamente accattivante. “Emotivamente” è la parola d’oro se si vuole giocare Unravel con la giusta cognizione di causa, perché le emozioni e l’empatia sono componente fondamentale del gioco per cui, prima di partire, comprendete bene questo punto: se siete alla ricerca di un’avventura veloce, sullo stampo classico dei giochi a piattaforme, allora virate su altro. Se invece avete voglia di sperimentare un viaggio più propenso ad emozionare che a stupire, allora forse potreste aver trovato un ottimo modo di spendere 19 euro e 99.
Sviluppato dall’esordiente Coldwood Interactive, piccolo studio svedese approdato in EA grazie a DICE, Unravel è un puzzle-platform molto classico e con un livello di sfida neanche troppo elevato. “Puzzle platform”, quel genere meraviglioso che ha trovato nelle meccaniche tipiche delle piattaforme (sovente bidimensionali) il nuovo gusto del puzzle game, portando negli anni ad esperimenti molto riusciti come Braid, Trine o l’arcinoto Limbo e che con Unravel trova un nuovo, valido, esponente, di sicuro sottotono in termini di gameplay rispetto ai suoi illustri predecessori, ma arricchito da una direzione artistica particolarmente ispirata ed efficace. Si tratta comunque, diciamolo subito, di un gioco molto semplice e di certo non di un masterpiece come tanti si aspettavano fosse. A ben vedere, nella sua costruzione, Unravel porta ben poche novità, ed ha pochi piccoli lampi di genio, comunque troppo risicati per gridare al miracolo del game design. Con prospettiva laterale si esploreranno 11 mondi ricchi di insidie, tutti vissuti a grandezza di pupazzo. Il piccolo Yarny, interamente composto da lana rossa, sarà il protagonista di questo viaggio, dapprima un po’ fumoso nella sua storia poi, pian piano, sempre più toccante nella sua profondità e nel suo silenzio. Non ci sono linee di dialogo o discorsi prolissi, ma solo “tracce” che il giocatore e Yarny seguiranno a colpi di salti e piccoli rompicapo e starà a voi, se ne avrete le capacità, capire il senso del viaggio. In questo mondo dalla bellezza coinvolgente, le meccaniche sono soggette ad una fisica solida e realistica che dà agli oggetti peso e consistenza ed in cui il vero protagonista è la lana di cui Yarny è composto. Usarla come lazo, come fune da traino o come ponte, è il fulcro dell’estro creativo del team ma ammettiamo, forse un po’ a malincuore, che per il resto il gameplay non offre particolari guizzi, salvo a quanti non vorranno completarlo al 100% alla ricerca dei ben nascosti “segreti”.
Eppure Unravel mi ha fatto cambiare idea su di sé, e forse lo ha fatto grazie alla sua capacità di suscitare empatia nel giocatore. Il gioco, nel suo silenzio accompagnato solo dai suoni dell’ambiente che ci circonda e dalle bellissime musiche di sottofondo, si prende la briga di trattare in modo delicato tematiche come l’abbandono, la morte, l’assenza e l’amore, ma senza spiattellarle in faccia al giocatore, lasciando che sia invece egli stesso a comprenderle ed a capirle. Si tratta a conti fatti di un lavoro di rara delicatezza narrativa, simile – se proprio servono paragoni – a quanto succedeva in capisaldi del videogame moderno come Journey. E così quello che è un pupazzino, Yarny, piccolo e forse per alcuni anche anonimo, si dimostra un protagonista affascinante e sfruttato in modo intelligente nella sua unicità. Nulla è lasciato a caso, neanche la particolare natura del personaggio, che nella sua fragilità, data dal fatto da essere un pupazzo debole e inerme, nasconde invece una volontà ferrea. Una volontà mossa dal giocatore che, con Yarny, si troverà ad affrontare situazioni pericolose e mortali, il tutto per andare alla ricerca di veri e propri ricordi perduti. Qualunque sia il senso del viaggio sta a voi scoprirlo e comprenderlo, ed il bello è che quando tutto è lampante, poco prima dei titoli di coda, ci si sente in qualche modo di aver vissuto un bellissimo e colorato deja vù.