L’uomo nel buio: la nascita del Man in the Dark
Il primo Man in the Dark, arrivato nelle sale nel 2016, partiva dalla necessità di Fede Álvarez di doversi andare a riscattare sul grande schermo. Il suo precedente film, lungometraggio d’esordio, era niente di meno che il remake di un’opera sacra come La casa, affossato e messo in croce da critica e pubblico nonostante il benestare dello stesso Sam Raimi (in produzione).
Così Álvarez decise di cambiare registro ed elaborò assieme a Rodo Sayagues una pellicola più piccola, per intenzioni e budget, e per certi versi anche minimalista. Niente sovrannaturale, praticamente niente sangue e un finale aperto. Nel mezzo solamente un’altra casa e un rovesciamento del topos cinematografico dell’home invasion, dove l’invasore diviene il predato. Fu un successo al botteghino.
Il ritorno del Blind Man in L’uomo nel buio – Man in the Dark
A distanza di cinque anni arriva l’inevitabile sequel, L’uomo nel buio – Man in the Dark, con un passaggio di testimone che in regia vede Álvarez fare il cambio con Sayagues chiamato a prendere le redini di un carro che appare sin da subito consapevole con quali strumenti dover andare a giocare.
Bastano pochi correlativi oggettivi per richiamare una continuità narrativa che tesse le fila di quella che sembra configurarsi immediatamente come una micro-mitologia interna: il cane Shadow, l’enorme revolver argentato, il veterano di guerra cieco (interpretato ancora da un azzeccatissimo Stephen Lang).
Nella diegesi sono passati otto anni dagli eventi del precedente film ma tutto è rimasto come allora. Sullo sfondo si erge la distante e decadente Detroit, scarico dell’american dream e oramai eterna periferia degli Stati Uniti che è ricettacolo della sconfitta dove si raggruma l’indesiderato. Una differenza però c’è. Una grande differenza. Ad accompagnare il «Blind Man» c’è una ragazzina, sua figlia Phoenix (Madelyn Grace).
Non ci sono più eroi ma solo antagonisti
In questa sede ovviamente non sveleremo nulla di più, ma chi ha visto il precedente capitolo di quella che pare andarsi a preannunciare come una serie che probabilmente proseguirà (titoli di coda…) sa bene quanto la presenza della piccola Phoenix faccia da notevole spartiacque tra il prima e il dopo.
Una presenza studiata dalla coppia Álvarez-Sayagues per costringere lo spettatore ad assumere anche un differente atteggiamento nei confronti della figura paterna di Lang, che dall’esterno sappiamo possedere delle sfumature morali che definire ambigue è un eufemismo. Una mossa estremamente rischiosa perché l’allineamento con il personaggio e le sue paturnie non è affatto scontato, soprattutto nel momento in cui un qualcosa accade e siamo chiamati a dover accostarci al personaggio. Non dimenticando mai, in ogni caso, come la vera protagonista sia la figura femminile (ora come allora), l’unica in grado di decidere davvero.
Una scelta comunque scomoda ma di indubbio fascino, capace di strutturare un confronto tra anime dannate dove gli eroi non esistono più, dove tutto e tutti sono un “antiqualcosa” e resta solamente il reazionario, il senza scrupoli, il sangue. Ecco, il sangue, che Sayagues a differenza di Álvarez decide di evocare in ben più copiosa presenza per rendere L’uomo nel buio – The Man in the Dark decisamente più efferato e splatter rispetto al primo capitolo.
Il residuo di un’entità immorale
Se parte sulla falsa riga del film del 2016, questa pellicola si accosta poi dalle parti del revenge o rescue movie, facendo leva su un progressivo strutturare una forma deviata di superomismo tesa nel mezzo di un purgatorio dove ci sono i resti maceri di un presunto rigore superiore degli eroi Marvel e la spietatezza degli “eroi” di The Boys.
In particolare gli ultimi venti minuti di film, visivamente centratissimi e ottimi nel dipingere la sensazione da girone dantesco, non risparmiano un gioco di tensione dove il film esplode definitivamente in un crescendo che regala incredibili soddisfazioni sul lato dell’intrattenimento, fatto di un action immediato e squisitamente ruvido.
L’uomo nel buio – Man in the Dark lavora ancora molto bene sul movimento negli spazi interni e sul brivido dell’oscurità, di un vuoto efficacissimo e glaciale. In qualche maniera pare però interessarsi di più a compiere un passo ulteriore nella definizione quasi sovrannaturale (per alcune sfumature assomiglia a Michael Myers) di un contro-protagonista con il quale è apparentemente impossibile empatizzare fino in fondo, perché sbagliato, violento, di fatto puro egoista. E questa è probabilmente la sfida più interessante che il film di Sayagues e Álvarez lancia. Staremo a guardare per il futuro.