Three sides of every story
È da un po’ che si sente sempre tirare in ballo il sistema di rating (paragonabile a quello finanziario) per indicare i giochi che teoricamente dovrebbero essere i pezzi da novanta delle nostre console. Quindi appare quasi inevitabile e scontato associare le fatidiche tre AAA a titoli come Call of Duty, Titanfall, l’imminente Bloodborne e via discorrendo.
Il bisogno di avere questo tipo di rating mette le sue radici alla fine degli anni 80, quando le aziende sentirono il bisogno di promuovere i loro titoli con qualcosa di più della semplice copertina e una modesta pubblicità. Nintendo inserì il Marchio di Approvazione (Nintendo Seal Of Quality), per indicare che i titoli sotto questa egida avevano superato tutti i test di qualità della casa di Kyoto (a prescindere se erano poi dei giochi di merda). Nintendo in questo senso comunicava ai suoi utenti che il gioco per cui stavano sborsando i soldi era scevro da difetti o bug. Questo in un certo rivoluzionò il modo in cui l’industria videoludica si rivolgeva ai suoi acquirenti.
Da questo piccolo passo, le Major dei videogame si sono sentite in dovere di comunicare all’utente il motivo per cui stavano vendendo quel videogame e perché ne fossero particolarmente orgogliose. Insomma, molto semplicemente, i prezzi salivano e qualcuno si doveva inventare qualcosa per giustificare l’esborso di denaro, qualcosa che facesse sentire l’acquirente contento dell’acquisto appena fatto.
Non potendo mettere bollini ovunque e dovendo trovare un sistema quanto meno univoco, le aziende videoludiche hanno adottato il sistema più conosciuto al loro target di vendita, cioè i ragazzini e i teen ager: il sistema di grading della scuola americana, fatto di lettere dalla A (il Top) alla F (il Top dello schifo). Comparve quindi per la prima volta la Tripla A, come massimo sinonimo di qualità.
Acronimo o no?
La storia della tripla A è parecchio strana. Concettualmente sta a indicare che il gioco marchiato con questo grado di qualità ha avuto tre A come voto in tre categorie diverse.
La prima A sta per un alto livello di innovazione in campo videoludico. Giochi che praticamente cambiano le carte in tavola e riscrivono il futuro. Vi ricordate di quando Ocarina of Time arrivò sul mercato? Ecco il concetto è più o meno quello: uno tsunami…
La seconda A dovrebbe andare a tutti quei giochi che si contraddistinguono per l’alto apprezzamento da parte di critica e pubblico. Tutti quei giochi artisticamente e videoludicamente amati, che hanno fatto urlare di gioia tutti coloro che li hanno giocati e provati rientrano in questa categoria. Final Fantasy VII è forse un titolo di questi, che resiste dopo vent’anni, e continua ad essere richiesto a gran voce…
Per finire, la terza A sta per quei titoli che hanno segnato una svolta nelle vendite, diventando dei veri e propri blockbuster, stracciando i concorrenti e rimpinguando paurosamente le casse di chi ci aveva scommesso dei soldi. E qui la lista è lunga, considerando quanto commercialmente importante sia il mercato dei videogame. E di titoli del genere ce ne sono tantissimi, per fortuna… Talvolta sono anche appartenenti alle altre due categorie e questo rispecchia il concetto stesso alla base della Tripla A.
Leggendo questa classificazione appare chiaro e lampante come la dizione tripla A sia qualcosa da dare a posteriori. Insomma, in pratica dovrebbe succedere questo: il gioco viene pubblicato e analizzato, sezionato, venduto.
Poi, se risulta meritevole, allora gli si dà il bollino di Tripla A, con tanto di Bonus for Artistic Impression, per citare Carmageddon.
Trovate per caso qualche anomalia? Non vi viene una paurosa voglia di aggrottare le sopracciglia, mentre un enorme punto interrogativo fluttua a pochi centimetri dalla vostra testa? Se sì, allora siete un gamer moderno (o modernizzato…), e della tripla A ne avete un concetto distorto, propugnatoci dalle grandi major dei videogame, trasformando di fatto un sistema che premiava la bontà di un gioco in qualcosa di paurosamente inquinato dal denaro. Ora il titolo Tripla A viene dato A PRIORI, riservato a giochi in via di sviluppo! Perché, oggi, dannazione, il Tripla A si riferisce SOLO ed ESCLUSIVAMENTE ai soldi investiti da un’Activision o una EA qualsiasi per produrre un titolo, a prescindere da quello che ne verrà fuori. E badate che nel budget multimilionario di molti titoli, una voce cospicua è occupata dalla pubblicità! La tripla A serve a indicare quei giochi per cui ci rompono talmente tanto i coglioni che alla fine ce li andiamo pure a comprare, grazie alla perfetta macchina dell’hype che funziona in maniera impeccabile.
C’è una tale disparità tra il vecchio sistema di classificazione e l’attuale utilizzo del termine tripla A che davvero fa paura. Presto faremo alcuni esempi e vedrete come certi giochi non meritavano neanche di arrivare a una D come voto.
Ormai, ci troviamo di fronte a un sistema di scommesse: un’azienda scommette su un’idea sicura, un franchise, una quasi invenzione e per dimostrare al mondo che sta facendo sul serio, proclama un titolo Tripla A. Il mondo automaticamente reagisce, perché nell’immaginario collettivo, implicitamente, questo bollino equivale a sicura qualità! E su questo credo, inizia il battage pubblicitario e il sottile lavaggio del cervello. Perché alla fine si decreta che un gioco sarà una figata pazzesca solo guardando qualche video e sentendo qualche intervista. Si esprimono in pratica giudizi a priori, e questa è una delle cose più sbagliate. Ci facciamo guidare dai PREgiudizi, che, nel bene e nel male, sono sbagliati a prescindere.
Grazie a questo perverso meccanismo, l’industria videoludica si sta sgretolando sotto il suo stesso peso, un’industria che cerca in ogni maniera dei andare avanti, ma solo a piccoli passi, sostentandosi e spremendo i suoi acquirenti con beceri trucchetti da venditori e imbonitori. Si arriva a questo solo quando le scommesse giocate sono troppo alte e le perdite potenziali tali da portare danni così grandi da generare paura in chi i giochi deve farli e deve farli funzionare a tutti i costi.
Nella botte piccola c’è il vino buono
La paura dei grandi genera aberrazioni di mercato e scatena le folle nel folle acquisto a scatola chiusa, e questo è un fenomeno assodato. Ma non tutta questa merda puzza. Per fortuna, sotterraneamente, si sta facendo strada una nuova (e neanche tanto nuova) generazione di sviluppatori che travalica le regole, le infrange e ne crea di nuove, nell’ottica di proporre qualcosa di nuovo e affascinante e di seguire una propria poetica (per usare un termine forse un po’ troppo pretenzioso). Parliamo del florilegio di giochi cosiddetti indie, piccoli capolavori (alcuni) che arrivano di soppiatto, quasi in silenzio sulle nostre console e ci restano, scavandosi un posto anche nel nostro cuore.
E paradossalmente, talvolta sono loro i titoli che tanto assomigliano ai proverbiali giochi tripla A secondo linee guida. Giochi che sono innovativi, che sono artisticamente acclamati e che vendono. Certo non fanno un volume da milioni di dollari, ma sicuramente nel loro piccolo, in percentuale e in rapporto ai soldi spesi per la loro realizzazione, sicuramente non hanno nulla da invidiare ai fratelloni più grossi e pubblicizzati.
In più hanno un’altra caratteristica che li accomuna tanto ai giochi anni 80, quelli che giravano sull’Amiga e sulle prime vecchie macchine da divertimento casalingo: vivono grazie all’apprezzamento dell’utenza, al passaparola e alle valutazioni della stampa specializzata. Raramente ci sono campagne pubblicitarie imponenti, attori famosi impegnati come testimonial, ma il gioco sopravvive grazie alle sue forze, a quello che è veramente.
Questi giochini (che di piccolo hanno solo il budget) ci danno un’idea di come la tripla A ha senso anche se non si investono milioni di dollari e di come, se un gioco è meraviglioso, non verrà mai dimenticato.
E noi?
Beh, come in ogni triangolo, abbiamo analizzato due punti di vista (quello del denaro scommesso dagli investitori, quello della creatività rivenduta dagli sviluppatori) ma ce ne manca uno. Quale? Basta chiedersi chi manca all’appello, che poi alla fine è il vero motore di tutta questa giostra, quello che alla fine i soldi li caccia per premiare l’una o l’altra parrocchia. Parliamo del videogiocatore, quello che dovrebbe essere il vero ago della bilancia, quello che dovrebbe decretare almeno in parte la riuscita di un gioco a dispetto di un altro.
Ma purtroppo il videogiocatore ha smesso di avere veramente peso. Perché da una parte è bombardato in continuazione da titoli da ogni maniera che si presentano sontuosi e splendidi. Essere un videogamer adesso assomiglia tanto a farsi un giro in uno dei suk tunisini, o qualche altro vecchio mercato rionale: a ogni passo si sente qualcuno che urla di comprare galline, uova fresche, pomodori appena raccolti, i più rossi e i più saporiti che troverete! Ecco, è così. Si sentono le urla appena accendete la console, dove campeggia la scritta più odiosa che potreste immaginare: preorder… Ora immaginate una cosa: se davvero il gioco fosse così valido e spettacolare, avrebbero davvero bisogno di rimpinzarlo di contenuti bonus, il più delle volte digitali e assolutamente inutili? Se fosse così fantastico come dicono, non basterebbe invogliarvi a comprarlo con un leggero sconto tangibile, per esempio?
La verità, cari miei colleghi videogiocatori, è che le aziende che vi vendono i giochi sono le prime ad essere intimorite da voi. Hanno bisogno di irretirvi e tenervi all’amo. Perché sanno che alla fine tutto dipende da voi (noi).
Ragioniamo in termini di tripla A, ricordando il senso di questa classificazioni: innovazione e plauso della critica, innanzitutto, perché una volta arrivate le prime due, la terza ce la mettiamo noi, quando lo andiamo a comprare...