Durante la View Conference di Torino abbiamo avuto la possibilità di intervistare John Nelson, VFX supervisor di Blade Runner 2049 e vincitore nel 2001 di un premio Oscar per gli effetti speciali de Il Gladiatore. Nelson ha riposto pertanto a tutte le nostre domande con estrema cordialità.
[L’intervista contiene spoiler del film Blade Runner 2049]
La computer grafica è arrivata negli ultimi anni a un livello di perfezione tale da permettere di ricreare digitalmente e con un altissimo grado di verosimiglianza attori che ci hanno lasciato, o che è necessario ringiovanire, come abbiamo visto anche con Rachel in Blade Runner 2049.
Quali credi che siano gli interrogativi etici da porsi di fronte a una simile tecnologia?
Beh, la prima volta che ho dovuto usare la CGI in questo modo è stato durante Il Gladiatore, quando l’attore che interpretava Proximo, Oliver Reed, è deceduto prima della fine delle riprese. Creare digitalmente un essere vivente è complicato, quindi credo che per sfruttare una simile tecnologia debba esserci un’ottima ragione, altrimenti non ne vale la pena. Per rendere le sfumature dello sguardo di un essere umano, ma anche le microespressioni facciali, tutto quel linguaggio non verbale che non ci rendiamo neanche conto di esprimere con il nostro volto, ci vuole un enorme impegno. Nel caso de Il Gladiatore, appunto, non avevamo molte altre scelte se volevamo concludere il film.
Nel caso di Blade Runner 2049, invece, siamo stati costretti a farlo perché non avremmo saputo come altro fare a portare sullo schermo la stessa Rachel di trentacinque anni fa. Sean Young all’epoca era nel fiore della giovinezza e, anche se è rimasta una bellissima donna, è inevitabile che sia invecchiata. Abbiamo messo la tecnica al servizio della storia: questa era un’ottima ragione per farlo. Eticamente ci sono molti interrogativi, è vero, ma molto dipende dagli eredi che detengono il diritto di immagine. Per quanto mi riguarda credo che si debba sempre cercare di restare fedeli a quella che è stata la carriera dell’artista.
Rispetto al Blade Runner di Ridley Scott, in questo sequel gli ambienti perdono un poco della loro patina di sporcizia e caos, lasciando spazio a un design minimale: quali sono state le influenze per la creazione di questa nuova Los Angeles del futuro?
Molti degli ambienti in cui abbiamo lavorato sono incredibilmente urbani, proprio come nel primo film; quello che credo abbia fatto la differenza è l’occhio del regista, che ha portato avanti la sua idea di ambiente urbano: una città così stipata da sembrare estendersi da San Francisco a Los Angeles senza spazi vuoti.
I primi riferimenti fotografici che ho visto erano delle riprese aeree delle favelas di Città del Messico, poi abbiamo continuato a lavorare con le immagini del satellite di Google Earth. Roger Deakins è stato molto bravo a fondere fotografia e VFX; mi ha ispirato molto e abbiamo lavorato gomito a gomito per ottenere in ogni scena le perfette condizioni di luce, arrivando a chiedere in giro quale fosse il mese migliore per avere un cielo nuvoloso in Messico.
In molte interviste Denis Villeneuve ha confessato che dirigere il sequel di una pietra miliare del cinema come Blade Runner lo preoccupava molto. Questa pressione è stata percepita anche dal comparto tecnico?
Non solo dal punto di vista tecnico, ma anche da quello artistico. Per due anni ho avuto intorno solo persone che mi avvicinavano per minacciarmi: “È uno dei miei film preferiti, sarà meglio che tu non faccia casini!”
In ogni caso Blade Runner è anche uno dei miei film preferiti e quindi la pressione era enorme, non solo perché volevo onorare quello originale, ma anche fare qualcosa di veramente buono, che non finisse però per sembrare una fotocopia dell’originale. Dovevamo fare un buon film, che fosse però diverso da Blade Runner. Fortunatamente abbiamo lavorato con un regista eccezionale. Io ho collaborato in passato anche con Ridley Scott e sono entrambi geniali, anche se con un approccio artistico differente. È come far dipingere lo stesso paesaggio a due pittori diversi: i quadri non saranno mai uguali. Volevamo omaggiare il primo film, senza però replicarlo.
A proposito di replicanti, cosa rappresentano per te queste figure?
Credo che i replicanti ci spingano ad analizzare e mettere in discussione la nostra stessa umanità: cosa li rende umani? Cosa ci rende umani? Qual è l’origine dei ricordi e quale il collegamento tra i ricordi e l’umanità? Per me Joy e K sono dei reietti della loro stessa cultura: il personaggio di Gosling è un replicante che uccide altri replicanti, e non gli piace quello che fa, ma si rende conto di essere stato creato per quello scopo. Ryan è stato molto bravo a far percepire la lotta interiore di K tra l’obbedienza al suo programma e ciò che gli detta il cuore. Anche Joy può essere considerata un’emarginata, perché è virtuale, a differenza di K; sono così speciali. La particolarità dei replicanti sta nel portare in superficie emozioni totalmente umane, come la solitudine. Questa storia ha il pregio di far riflettere sula natura dell’oppressione sociale, e su cosa significa veramente essere umano.