Breve monografia sul Cowboy del Giappone
Sarebbe bello se in quel lontano 24 maggio del 1965 a Kyoto fosse successo qualcosa di memorabile, così da avere del materiale stuzzicante aprire un articolo che parla della carriera e delle vittorie di Shinichiro Watanabe, una delle personalità più influenti e apprezzate dell’animazione giapponese moderna. In quel giorno lui si limitava a nascere, e per sentirne parlare veramente dovremo aspettare ancora qualche anno, quando agli inizi degli anni 90 entrò nello staff di Sunrise Animation dove curò l’aspetto tecnico di diversi titoli in produzione.
Il suo vero trampolino di lancio fu però quel Macross Plus che fece ritornare la serie nella sua prospettiva originale, dopo che Shoji Kawamori aveva misconosciuto Macross II. Macross Plus fu un vero banco di prova per Watanabe perché lo vide per la prima volta come co-director, accanto a Kawamori stesso, affilando le armi con cui avrebbe realizzato i suoi progetti personali.
Non sappiamo con certezza quanto avrebbe preso da questo lavoro, ma sicuramente l’influenza di Kawamori l’avrebbe accompagnato in tutta la sua produzione, anche solo in maniera semantica e implicita. Il papà di Macross, oltre a essere un mech-designer d’eccezione (sono suoi i concept per i Transformer, per esempio, oltre a TUTTI i velivoli e robot della serie Macross) aveva anche una potente visione che cercava di trasmettere nei suoi anime, inserendo temi forti e universali, come l’amore, la guerra, il misticismo e il problema ecologico che è caro praticamente a tutti i Giapponesi. Molti elementi di questa prospettiva entreranno in gioco anche nelle produzioni firmate da Watanabe, negli anni a venire, ma debitamente filtrate dalla visione particolare e personale dell’artista di Kyoto.
Watanabe avrebbe esordito pochi anni dopo, presentando al pubblico una storia, anzi una serie di storie che avrebbero rivoluzionato completamente il mondo dell’animazione giapponese, facendolo assurgere nell’Olimpo degli autori del Sol Levante.
Interstellar Jazz
L’opera prima di Watanabe è Cowboy Bebop e sappiamo perfettamente che non esiste, tra voi Fedeli Lettori, una sola persona che non ne abbia visto almeno una puntata. Con questo lavoro, l’Uomo di Kyoto getta le basi di quella che sarà la sua poetica, il suo pensiero, la sua visione.
L’epopea di Spike e la ciurma dell’astronave Bebop si svolge in un Sistema Solare colonizzato dagli esseri umani, talmente alla deriva che le forze di polizia necessitano di aiuto e lo chiedono a contrattisti cacciatori di taglie. Da questo concept al limite tra la fantascienza classica e il più oscuro cyberpunk, Watanabe intesse la sua ragnatela di ministorie, lasciando che ogni puntata racconti una vicenda particolare e contemporaneamente porti avanti una macrotrama in cui sono coinvolti Spike (il protagonista dal passato oscuro) e il suo diretto nemico Vicious. Anche gli altri personaggi che accompagnano Spike, Jet Black e Faye Valentine hanno la loro storia da raccontare e questa emerge prepotente, in un perfetto bilanciamento tra passato rievocato e azioni dettate da una psicologia strutturata in maniera articolata.
In Cowboy Bebop niente è lasciato al caso e la narrazione si avvale di tematiche che potremmo definire adulte, e che in alcuni casi sono dure e amare. C’è davvero di tutto: si parla di violenza, di crimine, di droga, ma anche di omosessualità, di tolleranza razziale e di razzismo. In un contesto enorme come un sistema solare appena colonizzato, va da sé che gli spunti sono tantissimi e Watanabe non se ne lascia sfuggire neanche uno, seguendo le sue idee e cercando di posizionarle al meglio in ogni momento della serie fino al drammatico e ben conosciuto finale.
Con Cowboy Bebop emerge un altro aspetto della produzione di Watanabe che lo caratterizzerà come se fosse un secondo nome: la sua meticolosità nello scegliere la musica per i suoi racconti animati. Per questo suo primo lavoro (e per molti della sua produzione successiva) si è avvalso della collaborazione della bravissima artista Yoko Kanno. Per Watanabe, non è solo una questione di colonna sonora e basta: per lui l’aspetto musicale è importante tanto quanto quello visuale, e con yoko Kanna si è sempre intrattenuto in chiacchierate e suggerimenti su come creare lo score per i suoi episodi di Cowboy Bebop. Ma si sa come vanno queste cose: la Kanno, da brava e poliedrica musicista, ha fatto le cose di testa sua, proponendo il mix di jazz e blues debitamente portato in un’era futuristica, e le sue idee furono talmente potenti che Watanabe ne fu quasi stregato.
Lui stesso ha ammesso che talvolta i suoni pensati e generati dalla sua collaboratrice gli hanno fatto vedere altre scene che poi lui ha aggiunto, in un esempio di sinestesia e di mutuo contributo.
Cowboy Bobop è un prodotto già estremamente maturo che mostra tutta la forza visionaria di un regista che ha qualcosa da dire: mischia sapientemente tematiche adulte trasposte in un impianto narrativo fantascientifico, prendendo sapientemente elementi di culture del tutto (o quasi) estranee alla sua origine, come la crime story all’americana, il noir, la detective story e il Western, con altri invece legati alla sua cultura di nascita, con exploit filosofici profondi che esplorano l’animo umano, con le sue pulsioni, la rabbia, la tristezza e la solitudine. Un melting pot culturale e tematico che potrebbe spaventare e sembrare forse troppo pretenzioso per un genere narrativo e di intrattenimento come un semplice cartone animato, ma che invece è risultato vincente nonostante l’assurdità della ricetta, grazie alla perfetta alchimia creata tra gli elementi portanti.
Con questo tipo di approccio artistico ormai elaborato e ben delineato, Watanabe si lancia nel suo secondo progetto solista, in un contesto che potremmo definire inaspettato.
Hip Hop Edo
Nel 2004, ben sei anni dopo il successo di Cowboy Bebop, viene trasmesso in tv il primo episodio della nuova serie firmata dal maestro Watanabe: Samurai Champloo. Ed è un nuovo capolavoro, forse per certi versi, anche migliore di Spike e company.
Samurai Champloo è un anime storico, ambientato nell’epoca Edo, un periodo tra il 1600 e il 1860 caratterizzato da stabilità politica ed economica, ma anche da isolazionismo e persecuzioni. È quel periodo fatto di shogunati e samurai, ronin e senso dell’onore, dove molto spesso la giustizia era amministrata a fil di spada. In questo contesto storico si muove il terzetto di personaggi protagonisti dell’anime: Fuu, una ragazzina alla ricerca del Samurai che odora di girasoli, Jin, un ronin attaccabrighe e Mugen un vagabondo nato in una colonia penale dal passato estremamente turbolento. I tre viaggeranno per il Giappone dei tempi che furono per aiutare Fuu nella sua ricerca, mentre contemporaneamente verranno a patti con il loro passato e con se stessi.
Nella versione di Watanabe, che è leggermente diversa da quella storica, l’epoca Edo è solo un pretesto per mettere a confronto due culture: quella orientale e quella occidentale. Infatti storicamente parlando, questo periodo era caratterizzato da un forte isolazionismo da parte del Giappone e dalla persecuzione della religione cristiana e di chi ne facesse parte. Questo presupposto è preso di petto da Watanabe che ne fa diventare un caposaldo dell’intera opera, contrapponendo spesso le due culture, e il suo colpo di genio sta nell’utilizzare riferimenti moderni inseriti e calati nel racconto storico.
Questa scelta trasforma il cartone animato in un’opera bifronte: da una parte ci sono personaggi davvero esistiti e vissuti quattrocento anni fa, dall’altra emergono riferimenti anacronistici o meglio discronisitici, come quelli a Van Gogh o al Baseball. Elementi della cultura occidentale moderna vengono addirittura inseriti all’interno della narrazione principale con una potenza visiva incredibile, come la sfida a colpi di graffiti o l’uso di breakdance e hip hop.
E con questo arriva anche l’altra colonna portante della narrazione di Watanabe: anche per Samurai Champloo e forse anche più di Cowboy Bebop, la musica e le sottolineature musicali sono quasi parte integrante del racconto stesso. In questo caso, la scelta è caduta su un improbabile Hip Hop, lasciando che la grammatica musicale dei ghetti americani debordasse in ogni aspetto della produzione, dallo scratching nei cambi di sequenza alla grafica da ghetto di New York delle scritte, fino a coinvolgere tutta la presentazione con lo stesso stile strafottente che caratterizza questo genere di musica.
Per questo motivo, Samurai Champloo è addirittura più ambizioso di CB, tanto da essere contemporaneamente un cartone animato con le musiche e una musica con il cartone animato intorno. Potremmo dire che la sfera musicale incarta l’intera linea narrativa creando un effetto straniante, dissolvendo le barriere temporali che ci separano dall’Epoca Edo e trascinandoci in questa epopea antica e moderna allo stesso tempo.
Samurai Champloo è un’ottima sintesi dell’opera di Watanabe, un esempio di come lo stesso artista sia evoluto nei sei anni da Cowboy Bebop, diventando padrone della sua stessa poetica, fino a trattarla come una pasta filante con cui plasmare le sue visioni.
Post Rock Terror
Nel 2014, viene pubblicata l’ultima, allo stato attuale, serie firmata da Watanabe: Terror in Resonance. Gli argomenti in questo caso sono di tutt’altra pasta rispetto alle precedenti iterazioni del regista e sceneggiatore. In una Tokyo odierna cala la scure del terrorismo quando un gruppo di criminali noto come Sphinx mette a ferro e fuoco l’intera città, generando un clima di paranoia e profonda paura.
Anche in questo caso, il gruppo di protagonisti è composto da tre persone, Twelve e Nine due studenti liceali recentemente trasferiti nella scuola di Lisa Mishima, terzo componente di questo improbabile triangolo.
Terror in Resonance è diverso dalle altre produzioni: affronta una lunga linea narrativa al cardiopalma, prendendo quasi esempio dalle serie televisive americane. Watanabe monta la suspance una puntata dietro l’altra, coinvolgendo il telespettatore con personaggi secondari inaspettati (Five ne è un perfetto esempio) fino al gran finale. Va da sé che la cronaca recente e l’allarme terrorismo che da un bel po’ di anni ci attanaglia hanno il loro peso nella struttura di questa storia, ma c’è da dire che il punto di vista è quello degli eventuali terroristi e questo cambia le carte in tavola.
Come ci si aspetta, anche in questo caso l’azione sullo schermo è impreziosita dalla musica, tanto che in un’intervista, lo stesso Watanabe ha confessato che l’intera idea gli è venuta in mente ascoltando i Sigur Ros, che gli hanno evocato l’immagine di due ragazzi in piedi in mezzo alle macerie di una città distrutta. Da lì è partito tutto: dei suoni e un’immagine…
Vista la provenienza di questa inception narrativa, Watanabe ha scelto per descrivere le vicende di Terror in Resonance una colonna sonora a base di Post Rock, sempre selezionato e composto da Yoko Kanno. L’idea della destrutturazione sonora e della ricerca di approcci alternativi al rock dei Sigur Ros si manifesta di puntata in puntata, sottolineando il clima di terrore che monta a ogni azione della Sphinx. Una scelta questa volta un po’ meno invasiva rispetto ai precedenti lavori, ma allo stesso tempo caratterizzante e ben integrata nella narrazione.
Artista del 21esimo secolo
Shinichiro Watanabe è un artista più che moderno. Sotto certi aspetti potremmo usare una definizione più audace e potremmo dire che è un artista globalizzato, capace di rendere giustizia ai vari generi che mischia. La sua capacità di prendere elementi culturali diversi, provenienti da zone del mondo del tutto estranee l’una dall’altra, è indice di una genialità che rispecchia la società superconessa in cui viviamo. Ogni elemento raggiungibile dalla conoscenza, per quanto fuori scala e lontano possa sembrare, entra a far parte di un organismo narrante simmetrico e funzionale: che sia musica, tematica filosofica o fondamento grafico di qualsiasi natura, non esiste niente che non possa essere mischiato per creare una perfetta formula magica dell’intrattenimento. Come una sorta di alchimista audiovisivo, Watanabe riesce a districarsi nella sua complessa visione sinestetica del mondo, per portarci all’interno di sogni fatti di musica, colori e esseri umani, uniti da una storia che val la pena di essere raccontata.
Per questo motivo, abbiamo apprezzato la scelta di lasciargli dirigere uno dei corti che anticipano l’uscita di Blade Runner 2049: così come la Los Angeles inventata da Ridley Scott era un melting pot di cemento, neon e ideogrammi cinesi, allo stesso modo Watanabe rappresenta quel giusto trait-d’union tra una cultura millenaria come quella giapponese e il cyberpunk, crudo e inquinato di Deckard, un artista dallo spiccato spirito orientale ma che continua a puntare lo sguardo verso un Occidente sempre più vicino.