Nonostante i numerosi compromessi e le banalità nella sceneggiatura, Watch Dogs: Legion sa sorprendere e innovare
Nel mondo dei videogiochi si parla troppo spesso di brand, marchi e aziende, e troppo poco delle persone che a questi concetti danno un’identità. La serie di Watch Dogs, un tempo teorico fiore all’occhiello di Ubisoft per l’avvio dell’attuale generazione, e che invece oggi è vista da tutti come un trionfale spreco rispetto al potenziale iniziale, rappresenta in qualche modo la summa di quest’idea: sebbene i tre capitoli che la compongono facciano tutti parte dello stesso brand, la loro anima cambia radicalmente di episodio in episodio, e ciò è dovuto alle idee che costituiscono la struttura con la quale sono stati creati.
Il primo Watch Dogs, con le sue meccaniche predittive e violente sui cittadini (che fossero potenti o disperati), ci raccontava una società di cui aver paura, dove ogni individuo nascondeva segreti terribili e orripilanti passatempi. Il secondo, al contrario, ci metteva nei panni di un eroe capace di smascherare gli orrori della Silicon Valley, il tutto con la spensieratezza della giovinezza, e con una patina di non-violenza borghese e idealistica.
Watch Dogs: Legion, invece, ci fa vestire i panni di… tutta Londra (o quasi tutta). Ma non lo fa per creare uno strumento vendibile in fase commerciale, o meglio: di certo i membri del settore marketing saranno stati felici di poter vendere al pubblico il concetto del “Play As Anyone”. Eppure, i precedenti lavori del direttore creativo (Clint Hocking, già al lavoro con la narrativa sistemica in Far Cry 2) e le storie dei vari capitoli della serie ci suggeriscono come ci sia dietro qualcosa di più che un semplice interesse commerciale, ossia il desiderio creativo di risolvere uno dei più problematici assunti del videogioco Tripla A narrativo: l’individualismo.
Alla fine della mia rivoluzione tra le strade di Londra, Watch Dogs: Legion mi è sembrato miracolosamente riuscirci, ma solo in parte, non del tutto. E la cosa che fa più rabbia è che non riesce totalmente nel suo intento non solo per limiti tecnici, ma proprio per le urgenze produttive dettate dalla sua natura di colosso commerciale.
Partiamo da un presupposto: Guillemot può sostenere quello che vuole, ma Watch Dogs: Legion è un gioco totalmente, marcatamente, squisitamente politico. E non mi riferisco a quella definizione di “politico” che di solito vediamo usata nel mondo dei videogiochi, quel paraculo “vogliamo farvi vedere tutto da tutte le prospettive” che si traduce spesso nel non voler dire nulla.
Watch Dogs: Legion critica il nazionalismo della Brexit; accusa di razzismo l’ICE; mostra i luoghi di detenzione dei migranti come campi di concentramento; definisce la disinformazione orchestrata dai media come schiava del potere; critica gli antiabortisti; parla dell’urgenza della violenza per chi la violenza la subisce ogni giorno, del dolore di perdere qualcuno perché fa la cosa giusta, della difficoltà di vivere il mondo se non si è particolarmente adatti alla società della performance.
Difficilissimo dunque non vedere un’intenzionalità nella pochezza (rispetto allo standard del settore e soprattutto della casa francese) dei suoi contenuti: esattamente come Far Cry 2, non siamo né inondati da missioni secondarie o obbligatorie che si distaccano dai temi del gioco (caccia, gare di macchine, acquisti di case, ecc.), né ci viene imposto un qualche sistema di livellamento con centinaia di perk e modificatori, obbligandoci al farming.
Secondo presupposto purtroppo necessario: come tutti i titoli ad alto budget, Watch Dogs: Legion è figlio di evidenti compromessi tra la voglia di comunicare qualcosa e la necessità di vendere un prodotto a target specifici e sicuri. Infatti, nel suo “gioca con chi vuoi” Legion ci permette di essere davvero chiunque, dalla senzatetto alla parlamentare, dallo street artist all’anarchica, dal giudice alla giornalista, dalla bianca al nero, dalla donna a quel che vuoi.
Eppure, le diversità etniche, di orientamento e di classe emergono soprattutto nei dialoghi, nelle cinematiche e in alcune peculiarità degli inventari, ma i verbi che descrivono il linguaggio usato da Watch Dogs: Legion sono tristemente quasi gli stessi della maggior parte degli altri esponenti del mercato ad alto budget: sparare, strozzare, uccidere, infiltrare. Per questo motivo, oltre a offrire meno interazioni del dovuto, Legion crea anche situazioni assurde e paradossali, dove una teenager affossa da sola intere milizie private, o dove un sessantenne è in grado di battere a mani nude un soldato addestrato, dando alla rivoluzione una connotazione eccessivamente divertente e giocosa, rispetto al dolore che comporta riuscire a ottenerla.
Inoltre, pur di mantenere intatto il contenuto potenziale (collezionabili da trovare, accampamenti da ripulire, ore di attività, ecc.) della mappa, alle azioni dei rivoluzionari non seguono delle conseguenze materialmente individuabili nel mondo di gioco: per esempio, quando ci viene detto che abbiamo reso la zona di Westminster “ribelle”, ciò avviene perché abbiamo hackerato qualche torre delle comunicazioni e ucciso un paio di stronzi, ma il quartiere non è messo a ferro e fuoco come gli ultimi eventi (USA in primis) ci hanno mostrato, ma rimane sostanzialmente uguale.
Impossibile poi non notare la contraddizione materiale dei temi affrontati dal gioco in relazione al recentissimo passato dell’azienda francese, che legittimamente può portare più di qualche persona a distanziarsene preventivamente. Infine, i collezionabili sono veramente eccessivi, e per carità, tutti interessanti, ma inseriti in posti talmente assurdi che, considerando che Clint Hocking è l’ideatore del concetto di dissonanza ludonarrativa, più volte m’è venuto spontaneamente da dire “a Clint, ma vaffa…“. Tutto quello che scriverò a seguire deve dunque essere preceduto da questo grande, gigantesco “ciononostante” che descrive ogni grande produzione, che rappresenta il conflitto tra le velleità creative e le urgenze produttive.
Dati dunque questi ciononostante e questi presupposti, vi dico che per me Watch Dogs: Legion è un gioco sorprendente, nel senso più puro del termine: a 20 ore dall’inizio della rivoluzione, mi sono trovato a scoprire una nuova meccanica (non è stata l’ultima), stimolando la mia curiosità sui suoi modi di interagire con i sistemi del gioco. E alla fine per me è tutta qui la questione, dal lato ludico della critica: Watch Dogs: Legion fa, nel modo più puro possibile, quello che a mio parere deve fare ogni open world, ossia sorprendere, stupire.
Impossibile inseguire le sensazioni di perfezionamento dei soulslike, l’eccellenza nel level design dei giochi Arkane (dato che possiamo praticamente volare sopra tutto), la competizione sfrenata del battle royale o la perfetta regia di Naughty Dog: mondo aperto significa vivere miriadi di esperienze diverse, una ricchezza infinita di possibilità interattive, di sistemi che comunicano tra loro generando nuove storie, nuovi racconti.
D’altronde, il numero di interazioni rispecchia la varietà incredibile di personaggi a disposizione, e la sorpresa risiede anche (e a pensarci è un po’ triste che sorprenda) nel vestire i panni di così tante persone con un “character design” sui generis: sessantenni brizzolati si alternano a giovani operai edili, per poi passare a programmatrici di mezz’età un po’ sovrappeso, e infine giungere ad atletiche usuraie delle periferie. Questa varietà si concretizza dunque anche nelle interazioni: ho usato una protestante per raggruppare la gente incazzata tramite un megafono, e quando sono passato vicino a una sede dell’Albion (l’agenzia che gestisce la polizia londinese) un poliziotto mi ha attaccato, scatenando la reazione dei miei compagni alle spalle; una volta, mentre usavo Bruce, un artista che fa la statua vivente nelle piazze, si è scatenata una rissa che ha richiesto il mio intervento, e nella fuga dopo la colluttazione mi sono travestito in fretta e furia in statua, eludendo quei fessi della Albion; c’è stata una volta dove mi è morta l’avvocatessa (pedina fondamentale per aiutare chi viene arrestato) perché soffre di meteorismo, e mentre ero alle spalle di un nemico ha scorreggiato così forte da allertare le guardie: poverina, essendo una sessantenne priva di addestramento, è morta nella sparatorie che ne è seguita.
La cosa bella è che il team si è sforzato di dare dignità a tutte le tipologie di classi e professioni: ci sono quelli più utili nell’elemento logistico e tattico, come avvocati e operai edili, così come quelli più “diretti”, come le ex-spie o le atlete. Sì, come detto prima è ridicolo che accadano certe situazioni (poliziotti battuti da anziani, ecc.), ma gli sviluppatori hanno fatto un lavoro eccezionale nel ricorrere a dei toni né eccessivamente scanzonati (Watch Dogs 2), né ridicolmente seriosi (Watch Dogs), mantenendo invece una “pesante leggerezza” che permette di vivere il tutto dandogli un peso emotivo, senza mai inseguire un marcato realismo. In sostanza, con Watch Dogs: Legion ci troviamo forse di fronte al primo, vero crowd-playing game della storia (Wonderful 101 mi sembra l’unico altro esponente), dove a essere al centro non è una massa omogena di soggetti (Lemmings) o un team (X-Com), ma una vera e propria folla, fatta di milioni e milioni di identità profondamente distinte e al contempo unite da uno scopo comune: la rivoluzione contro il sistema che le opprime.
C’è purtroppo una sceneggiatura banale a scandire queste esperienze, a dare il ritmo a una narrativa implicita altrimenti originalissima e ricca, nonostante i compromessi. In tal senso, a godersi il racconto principale non aiuta neanche un bilanciamento veramente fallato, dato che a seconda dell’eroe che usiamo e del tipo di azioni richieste potremmo passeggiare tra i nemici incapaci di resistere ai nostri hack, o al contrario fallire miseramente la missione, e perdere per sempre il nostro compagno (se volete giocarlo senza permadeath, tanto vale non giocarlo, per quel che mi riguarda).
Ma d’altronde la rivoluzione non è mica bilanciata: chi è meno prestante a livello fisico non potrà scalare certi livelli, e chi per scelta etica non uccide potrà usare solo armi non letali. È qui che, secondo me, crolla un po’ la mia critica precedente sui limiti di linguaggio possibili: se ‘sta rivoluzione andrà fatta, Watch Dogs: Legion ci dice che non potrà essere altro che violenta. E dunque importa che competenze e tendenze hai, ma le mani, a una certa, si dovranno sporcare.
Ecco, anche questo punto è fondamentale: unendo competenze e necessità di violenza, ogni personaggio ha davvero un suo gameplay dedicato, e nell’arco di poche ore (o minuti) sono passato dal tps allo stealth e poi a un mix di entrambi, e alla fine a una sorta di strategico dove con il solo uso degli hack dalla distanza ho fatto impazzire decine di guardie. Tutto questo in un contesto in cui non sai mai davvero cosa ti attende, e piuttosto che pensare un banale “in caso riprovo”, mi sono trovato sinceramente a riflettere a lungo su quale membro del DeadSec usare, perché non volevo rischiare di perderli inutilmente.
Tra la permadeath, l’assenza di build, la dinamicità degli strumenti a disposizione e l’unione di stealth, tps e hacking, Watch Dogs: Legion è un open world capace di far costruire storie di rivoluzione straordinarie, di certo estreme e irreali, ma che al contrario di moltissimi titoli non dimenticano cosa siano la sofferenza e il dolore, la perdita e la morte, la possibilità di fallire e la necessità di stare uniti.
Più di ogni altra cosa, però, Watch Dogs: Legion ribalta i valori del primo capitolo della serie, chiedendoci di curiosare nelle vite altrui solo per poterle conoscere meglio e integrarle tra noi, e non per rubarne gli spiccioli o per picchiarle seguendo algoritmi predittivi disumani. Non so se essere più felice per l’esempio coraggioso nel settore, o triste perché neanche con un simile tentativo riusciamo a superare certe categorie merceologiche, certe necessità. Nel mentre, torno a Londra, che mi mancano i miei compagni.