A seguito dell’Ubisoft Forward, analizziamo le novità introdotte dal nuovo capitolo di Watch Dogs, Legion, in relazione alle tradizioni della saga.
Nel giugno del 2014, oramai sei anni fa, Tim Colwill scriveva un tanto divertente quanto tragico articolo parodistico, nel quale proponeva un modello di recensione base estendibile a ogni produzioni Ubisoft. Struttura sandbox, protagonista generico, solite attività ripetitive, violenza onnipresente e una clamorosa, incredibilmente ben gestita capacità di sembrare di voler dire tutto, senza dire davvero nulla: un elenco che descrive efficacemente tantissime produzioni tripla A (non solo della casa francese) degli ultimi anni.
Come detto prima, sono passati sei anni da quel pezzo, che però continua a rappresentare con una certa coerenza, considerandone la natura parodistica, sia le produzioni Ubisoft, sia quelle del mercato in generale. Oggi, a seguito dell’ultima conferenza organizzata dalla compagnia francese, ritengo però che ci sia una distinzione da aggiungere in quell’efficace e divertente elenco: “tranne Watch Dogs Legion“. Considerando infatti il team coinvolto, le meccaniche utilizzate e i temi affrontati, sembra proprio che il nuovo capitolo della saga Ubisoft possa finalmente dare qualcosa di nuovo, diverso e intrigante al panorama mainstream. Vediamo perché.
Quando, in occasione dello sviluppo di Shadow of Mordor, Monolith progettò il cosiddetto Nemesis System, ossia una struttura ludica capace di sistemizzare in modo narrativo i nemici (nemesis, per l’appunto), Ken Levine parlò di una vera e propria nuova forma di narrativa. Da un lato, quell’innovazione rappresentò il sogno bagnato di ogni produttore di videogiochi: in sostanza, si tratta di una struttura teoricamente infinita, che non si esaurisce mai, e che concede un surplus di ore di gioco praticamente infinito. Dall’altro, come dimostrato dalle accorate parole di Levine, quel sistema era anche un sorta di miracolo per il designer, il Santo Graal della narrativa interattiva: il Nemesis System offriva un modo per dare finalmente al giocatore un sistema realmente reattivo, che si modellava, cresceva e reagiva alle sue azioni.
Nello stesso anno, pochi mesi prima, usciva Watch Dogs. La nuova proprietà intellettuale di Ubisoft ambiva a rivoluzionare il mondo della narrativa interattiva, sperando di restituire un’identità e una storia a ogni singolo NPC presente sulla mappa di gioco. Oggi, nel 2020, giochi come The Last of Us II dimostrano che quel desiderio non era questione di poco conto: tutti oramai riconoscono l’importanza del caratterizzare umanamente non solo i personaggi presenti nelle cinematiche, ma anche coloro che descrivono il mondo di gioco.
E, con tutte le limitazioni di un gioco cross-gen e con la ripetitività di alcune descrizioni procedurali, Watch Dogs c’era anche riuscito: ricordo ancora quando, in una banalissima missione stealth uguale a quelle affrontate in anni e anni di videogiochi, decisi di eliminare una guardia che si trovava di fronte a me, anche se avrei potuto aggirarla perdendo un po’ più di tempo. Dopo, durante la fuga, entrai nel sistema del CTos (il complesso e intricato servizio informatico che controllava Chicago) e per caso scoprii che quella guardia aveva un figlio, e che quel giorno era il suo compleanno. Mai mi era capitato nulla di simile per un banalissimo NPC di una missione casuale.
Perché Watch Dogs Legion sembra diverso, quindi?
Ciononostante, Watch Dogs ricorreva a delle meccaniche fortemente ideologizzate, che davano parvenza di realtà ai pregiudizi della società del controllo e della falsa privacy, e che entravano in netto conflitto con quanto mostrato dalle cinematiche e della sceneggiatura del gioco. Infatti, sebbene il protagonista Aiden Pierce cercasse di abbattere un sistema di controllo marcio e liberticida, il CTos lo guidava in azioni preventive che ne dimostravano la brutale, violenta efficacia, almeno secondo le prospettive di chi la creò.
Infatti, il sistema suggeriva al giocatore di tenere d’occhio un cittadino in funzione dei suoi reati pregressi, delle sue tendenze mentali e delle sue caratteristiche sociali, e non accadeva mai, neanche una volta, che fallisse. Il messaggio del gioco, nella sua componente interattiva (e quindi dominante nella trasmissione dei valori in un’esperienza da decine e decine di ore) era quello di temere il povero, aver paura di chi aveva commesso un reato, disprezzare il diverso e il problematico, perché certamente ideatori di futuri crimini.
Ed ecco dunque che, dopo una magniloquente incursione nei sistemi del CTos, passavamo il tempo seguendo cittadini comuni che puntualmente, secondo le regole predittive del computer, avrebbero commesso un atroce crimine, senza mai dimostrarne l’errore di calcolo. Un sistema che rendeva numeri gli esseri umani, e che noi stessi, teorici difensori della libertà, utilizzavamo per impedire il crimine.
Non essendo umani, non reagendo davvero al giocatore, i cittadini della Chicago di Watch Dogs si limitavano a descriverla, ma non ad abitarla. Come detto prima, pochi mesi dopo arrivò Shadow of Mordor, che ha cambiato per sempre il ruolo dell’NPC nella storia del videogioco. In relazione a questo tema, per anni c’è stato solo imbarazzato silenzio da parte il settore: in parte perché, abituato a decenni di deprimente e patetica ricerca di consenso da parte del fratellino maggiore hollywoodiano, ci siamo abituati a scindere l’emozione della cinematica da quella vissuta durante il gameplay; in parte perché, al di là dello splendido Sistema Nemesis, Shadow of Mordor era… lasciamo stare.
Oggi, invece, arriva Watch Dogs Legion, diretto da un autore che ha spesso fatto discutere sia per le sue idee (fu colui che coniò il termine dissonanza ludonarrativa) sia per i suoi giochi (Far Cry 2, Splinter Cell, Splinter Cell: Chaos Theory): Clink Hocking.
L’obiettivo del suo nuovo progetto, per quanto sembri incredibilmente originale nel panorama mainstream, riprende in modo abbastanza lineare quanto quest’ultimo cercò di fare già con il brand di Far Cry: creare un racconto sistemico, reattivo, capace di dare al giocatore libertà di scelte e azione, e attribuendo così alle stesse un peso enorme, che potesse farlo riflettere sul suo stesso modo di intendere i concetti di guerra e giustizia (in relazione al contesto storico rappresentato in Far Cry 2).
Dunque, perché attendere Watch Dogs Legion?
A più di dieci anni dal suo ultimo lavoro, Watch Dogs Legion sembra voler far esplodere queste dinamiche, e in tal senso ribalta completamente quanto fatto con il capitolo originale e, in parte, con il secondo: il focus si sposta sulla reattività dei sistemi, sulla possibilità di intervenire sugli stessi. Infatti, potremo convincere quello che il CTos vede come un potenziale criminale e portarlo dalla nostra, convincerlo della bontà della nostra causa.
Se il primo Watch Dogs descriveva una distopica Chicago dove un sistema predittivo di controllo annichiliva i deboli e proteggeva i potenti (e ci faceva spesso vestire i panni del braccio armato di quest’ultimi), Watch Dogs Legion sembra promettere una rappresentazione strutturale e sistemica dei valori sociali, all’interno della quale la differenza tra criminalità e disobbedienza civile viene stabilità dalla volontà umana, e non dal computer o dalla legge.
Ed è su questi binari che dovrebbe evolversi il discorso sul videogioco sistemico, e non su quanto riesca a essere più o meno tradizionale: è il momento di abbandonare le vecchie categorie valutative modellate specchiando quelle cinematografiche e letterarie. Giochi come Shadow of Mordor ci hanno aiutato in questo percorso, e si spera che possa farlo anche il prossimo Watch Dogs.
Per capire quanto queste sue qualità funzionino in modo efficace, e per scoprire se non vengono intaccate da quei tratti “tipici” delle produzioni odierne citati a inizio articolo, dovremo però attendere il 29 ottobre, data di lancio del gioco. Nel mentre, gustatevi il video che ho dedicato al tema, che trovate all’inizio dell’articolo!