La serie di Watchmen targata Lindelof è finalmente arrivata e ci ricorda che il fumetto non è replicabile, ma forse si può andare oltre
Watchmen di Lindelof. Bisogna dire che, se il buongiorno si vede dal mattino, questa serie di Watchmen ha iniziato quanto meno con un obiettivo chiaro in testa: superare Alan Moore. E non lo scopriamo certo ora, visto che nelle interviste precedenti al lancio Damon Lindelof si è dimostrato molto critico nell’atteggiamento del Bardo di Northampton, che tanto per cambiare ha ribadito la sua contrarierà a qualsivoglia progetto derivato dei suoi lavori.
Le ragioni di questi malumori vengono da lontano, nascono in tempi remoti e affondano le radici nello scontro tra Moore e la DC Comics, scontro che vede proprio in Watchmen il pomo della discordia. Riassumendo in fretta, lo sceneggiatore inglese è da sempre contrario a qualunque sfruttamento commerciale delle sue opere, a qualunque film, spin-off, prequel e sequel che dir si voglia, mentre invece il conglomerato DC-Warner ci va a nozze.
Immaginate la sua reazione dunque quando ha saputo che era stata messa in cantiere da Damon Lindelof una serie su Watchmen. E che questa serie sarebbe stata addirittura un seguito.
https://www.youtube.com/watch?v=-33JCGEGzwU
Eccoci dunque a quello che pare in tutto e per tutto un atto blasfemo contro una divinità: uno sceneggiatore, piuttosto famoso anche se non inappuntabile (Lost sei tu?), che decide di rimettere mano al mito di una saga passata alla storia per tirarci fuori non un’operazione nostalgica, non un omaggio, non una rivisitazione, bensì un seguito. È probabile che Lindelof per questa serie su Watchmen abbia ricevuto diverse macumbe, nonché accalorate lettere minatorie. Peccato perché, in fin dei conti, non ha fatto altro che imparare dal migliore, dallo stesso Moore.
Watchmen, se non lo sapete, nasce dall’idea di Moore di recuperare vecchi personaggi dimenticati di cui la DC aveva i diritti, quelli della fu Charlton Comics, con l’obiettivo di introdurli nella allora contemporaneità degli anni ’80. Voleva, quindi, fare la stessa cosa che ha cercato di fare Lindelof con la serie. Va bene che poi al Bardo non è stato dato il permesso e che Watchmen è per buona parte farina del suo sacco, ma l’intuizione originale deriva dal desiderio di rispolverare eroi che non gli appartenevano.
Non è che magari semplicemente Moore si è risentito perché qualcuno gli ha fatto quello che lui aveva fatto ad altri? Eppure, Lindelof non è stato certo il primo a provarci, anche se forse, da quello che possiamo vedere in questo episodio pilota di Watchmen, è stato il primo a riuscirci.
Il rintocco del fumetto dell’apocalisse
Dicevamo, il buongiorno si vede dal mattino. In questo caso, più che buongiorno dovremmo parlare di un’abiura morale visto che nei credits della puntata alla voce “tratto dal fumetto di” c’è solo il nome di Dave Gibbons. Manca dunque Alan Moore (e anche il colorista John Higgins, importante quanto gli altri due), a rimarcare la sua distanza esistenziale e filosofica dalla serie in questione. Del resto, è risaputo che il Nostro non solo è contrario agli adattamenti ma si mette pure di traverso, talmente ostile da non voler prendere neanche un caffè per scambiare due chiacchiere con i diretti interessati. Pure stavolta è stato così, cosa che ha rintuzzato la ben nota polemica.
Niente di nuovo, lo abbiamo visto con l’adattamento cinematografico di Zack Snyder, anche se a lì dirla tutta Moore dovrebbe avere il dente avvelenato per il fatto che la pellicola è praticamente un copia-incolla dell’originale, fatta eccezione per il finale.
Non per nulla, Lindelof fa finta di niente e la sua serie è un sequel solo della storia originale, ovvero quella che si è conclusa con l’arrivo improvviso di un mostro psichico a New York che ha fritto il cervello a milioni di persone, fermando l’orologio dell’apocalisse. Eppure, se la sua serie esiste dobbiamo ringraziare anche il pigro cinecomic (in anticipo sulla moda che oggi Scorsese detesta), che ha risvegliato l’interesse mondiale nei confronti dei supereroi super problematici di Moore e Gibbons.
Che poi, a dirla tutta, l’interesse non si era mai spento, ma mancava quella miccia capace di riaccendere il fuoco per quello che è, senza ombra di dubbio, uno dei fumetti più influenti degli ultimi decenni, se non il più influente.
Watchmen è con buona probabilità il fumetto che ha lasciato l’impronta più marcata nella storia del medium dai tempi di Stan Lee, Jack Kirby e marveliana compagnia. Tutte le storie venute dopo, in tempi più o meno diversi, sono una sua diretta emanazione, a volte consapevole e a volte no, con al centro sempre il medesimo concetto, che Moore non aveva inventato ma elevato ad arte: la decostruzione del supereroe in quanto tale per renderlo più che umano peggio dell’umano. Se The Dark Knight Returns di Frank Miller può essere considerato l’atto d’insubordinazione che ha dato il via alla rivolta, Watchmen è quella scossa tellurica di assestamento che ha trasformato la rivoluzione di pochi sbandati nel nuovo status quo.
Per questo, esistono infinite variazioni del tema, infiniti tentativi con cui fior fiori di autori hanno cercato di reinterpretare questa svolta copernicana e la lezione è stata ben assimilata, tant’è che i frutti si vedono ogni giorno. Ecco perché, a dirla tutta, nonostante le inevitabili perplessità, mi sono sentito subito vagamente ottimista sulla serie di Watchmen prodotta da Lindelof: i tempi sono ormai maturi per portare questa eredità sullo schermo, grande o piccolo che sia e in un certo senso ne abbiamo avuto già un assaggio con The Boys.
Anche il nome di Lindelof mi ha lasciato abbastanza tranquillo. L’unico capace di azzardare una simile mission impossible come una serie su Watchmen non poteva che essere lui, visto che l’ex demiurgo di Lost oltre a blasonate esperienze in tv e al cinema è stato anche autore di fumetti, non di una estemporanea incursione bensì una minisaga convincente nell’Universo Ultimate con Ultimate Wolwerine vs Hulk.
Senza contare che alle spalle c’è una broadcast company come HBO, intenzionata dopo il finale di Game of Thrones a chiudere un 2019 da incorniciare e nel complesso un decennio che l’ha vista primeggiare in lungo e in largo sulle serie tv, uscendo bene dal confronto sempre più impegnativo con i rivali Netflix e Amazon.
No, il mio scetticismo era (e rimane in parte, dopo il primo episodio che fa ben sperare) soprattutto di natura filosofica e, oltre tutto, esistenziale, perché apparentemente non possono esistere opere derivate per Watchmen.
E, badate bene, non perché lo dico io, perché lo proclama uno stempiato fan con un altarino dedicato a Moore in camera da letto o Moore stesso, ma perché semplicemente non è possibile. Non è possibile perché, beh, ci hanno già provato e, francamente, avevano sulla carta vita molto più facile di quanto non abbia questa serie su Watchmen di Lindelof.
Ma andiamo con ordine.
Before Alan Moore
Il problema è sorto quando si è deciso di tornare nel mondo di Watchmen, col suo normalissimo film.
Se il film di Snyder non ci provava neanche a rimettere mano allo spartito di Watchmen, preferendo di realizzare un prodotto alla stregua di un riassuntino (con quel guizzo lì per poter dire di aver lavorato), la DC era di tutt’altro avviso. Sfruttando l’onda lunga del film e il suo grande successo, la casa editrice aveva deciso all’inizio del decennio di mettere in produzione delle mini serie volte ad approfondire il mondo di Watchmen.
Il risultato fu un progetto di ampio respito, composto da saghe dalla diversa durata e ciascuna dedicata a sviluppare i retroscena, i personaggi sullo sfondo e le vite dei protagonisti.
Ed ecco quindi Before Watchmen: Minutemen, Before Watchmen: Silk Spectre, Before Watchmen: Il comico; Before Watchmen: Nite Owl; ecc., tutti usciti nel corso di un anno dal novembre 2012 al settembre 2013.
Personalmente, non sono contro a prescindere a queste operazioni che sono lapalissianamente soprattutto operazioni di marketing. Il fumetto vive di queste cose, in esse trova il suo lato più giocoso, divertente e addirittura barocco, per certi versi. Mi limito a non comprare se non sono interessato o a dargli una possibilità prima di giudicare.
In Before Watchmen la situazione è un po’ complessa, perché mi sento in dovere di spezzare una lancia in favore della DC che ha saputo scatenare la sua potenza di fuoco reclutando autori straordinari. Dietro troviamo, infatti, gente come Darwyn Cooke, Brian Azzarello, J. M. Straczynski (autore, tra le altre, di Sense8), Andy e Joe Kubert e perfino il decano Len Wein (co-creatore, tra gli altri, di Swamp Thing), probabilmente i nomi più adatti per una simile operazione, il meglio del meglio di cui si poteva disporre in quel momento.
Peccato che abbiano clamorosamente fallito.
A dirla tutta, non lo hanno fatto, per lo meno sul piano della qualità: Before Watchmen è molto valida da leggere, da gustare e da ammirare, perché appunto è diretta emanazione dei mostri sacri sopra menzionati. Ma non è Watchmen. Il problema è che, attingendo alla fonte, hanno cercato di approcciarsi all’estetica, al gusto, alla visione di Moore, Gibbons e Higgins ma lo hanno fatto con un piglio troppo moderno, realizzando qualcosa che con l’originale c’entra ben poco.
Là dove Watchmen era sporco, disturbante, allucinato, inquietante e per certi versi narcotico, Before Watchmen era splendente, sbalorditivo, patinato, sontuoso nello stile e nella scrittura che vedeva praticamente la penna giusta dietro ad ogni personaggio. Tutto molto apprezzabile, tutto molto godibile, ma non erano i Minutemen originali, non c’entravano proprio niente, tant’è che togliendoli e sostituendoli con altri characters probabilmente avremmo ottenuto lo stesso effetto.
Hanno, in sostanza, tradito troppo, quando una buona opera derivata per essere tale deve tradire il giusto, aver quel pizzico di interpretazione da essere personale ma rimanendo attacca alla radice. Dev’essere, in sostanza, fedele e infedele al tempo stesso.
Un fallimento, dunque, almeno sul piano delle intenzioni, che per certi versi ha dimostrato che qualunque operazione a fumetti su Watchmen non può far altro che risultare spuria. Per questo, la DC sembra aver deciso di rispolvere l’intero pacchetto utilizzando altri stratagemmi, come ha fatto di recente con Doomsday Clock, che è un’operazione diversa da Before Watchmen e proprio per questo può dirsi riuscita.
Watchmen di Lindelof: superare Alan Moore
Before Watchmen rimane comunque un’ottima lettura, per certi versi complementare al vasto affresco del Bardo anche se non essenziale e mi sento di consigliarla a chiunque voglia recuperarla. Ma ha fallito nel suo compito principale di rivisitazione, di rilettura e di “attraversamento”, nel senso di capire e sviscerare lo spartito di Moore quanto basta per poterlo suonare col proprio strumento.
Lo squadrone di autori di Before Watchmen non ci è riuscito, ad “attraversare” Alan Moore per restituire qualcosa che fosse “fedele e infedele”, ma ha piuttosto raccontato buone storie non-da-Watchmen con i medesimi pragonisti. Snyder non ci ha neanche provato (che fosse perché più furbo o meno coraggiosso degli altri non è dato sapere), mentre Lindelof potrebbe avercela fatta. Il condizionale è d’obbligo, perché, anche se ha già ricevuto il plauso della critica, della serie per ora è uscita una sola puntata.
Una puntata che ha fatto ben sperare e da qui in poi ne parleremo con dei leggerissimi SPOILER, funzionali all’analisi.
La puntata s’intitola “It’s Summer and We’running out of ice“. Ci troviamo nel 2019, ma non è il nostro bensì quello alternativo sopravvissuto all’orologio dell’apocalisse. Il presidente è Robert Redford (sì, quel Robert Redford) e gli USA stanno ancora faticando a riprendersi dalla tragedia che 34 anni prima ha devastato New York.
La narrazione si apre, però, su un’altra tragedia, questa volta accaduta davvero: il massacro di Tulsa, in Oklahoma, in cui la popolazione bianca della città ha decimato in un raptus omicida la popolazione nera. E sempre a Tulsa riparte la storia, che vede al centro Angela Abar, una donna di colore (interpretata da Regina King) che in apparenza gestisce una pasticceria ma che in realtà è una vigilante governativa che agisce col nome in codice di Sorella Notte.
In questo 2019 alternativo, infatti, i poliziotti lavorano tutti a volto coperto per tutelare la loro sicurezza, e alcuni agiscono come dei supereroi veri e propri, per quanto legittimati. Angela si trova coinvolta in un caso di cronaca che vede dietro la mano del Settimo Reggimento, un’organizzazione di suprematisti bianchi che ha ingaggiato una lotta senza quartiere contro le forze dell’ordine e che prova un’autentica venerazione per Walter Kovacs, il fu Rorschach.
Intorno a lei, in un mondo annichilito e cupo, sembra che gli istinti e le paure peggiori della gente abbiano presto il sopravvento, mentre l’orologio dell’apocalisse torna improvvisamente a ticchettare.
Il plot, va detto, per quanto appena abbozzato da già l’impressione di quella che è stata l’operazione condotta da Lindelof per la serie di Watchmen. Ha preso quelle che erano le caratteristiche del fumetto, le ha analizzate nei minimi dettagli e poi le ha scomposte e rimesse insieme adattandole al contesto della sua storia.
Il risultato è che da New York ci siamo spostati in Oklahoma, dalla culla del mondo civilizzato siamo passati alla campagna e lo psicodramma nazionale è cambiato. Dal terrore atomico, vivisezionato da Moore con una crudeltà unica, dovuta anche ai suoi natali britannici, passiamo al razzismo e all’intolleranza che scorre sottopelle nella società americana.
La scelta si rivela particolarmente azzeccata nonché in linea con i tempi, esattamente come aveva fatto il Bardo nel 1985. In generale, si può dire che la serie ha questo fortissimo senso di déjà-vu perché tratta temi moderni usando lo stessa partitura di Watchmen. I personaggi, anche se sono diversi, somigliano molto ai vecchi Minutemen (per ora assenti, fatta eccezione per un cameo del Dr. Manatthan, ma dal trailer sappiamo che li rivedremo presto), per lo meno danno l’impressione di condividerne il DNA.
Abbiamo sempre un caso di cronaca su cui qualcuno deve investigare, una comunità lacerata dal terrore e il rapporto che l’opinione pubblica ha con gli uomini in maschera e c’è persino qualche accenno di un piano metanarrativo simile a quello del Vascello Nero nel fumetto.
Questo déjà-vu, che a conti fatti assomiglia più ad un remix, non deve farvi ingannare: la trama è diversa, i protagonisti sono diversi e sottofondo abbiamo soprattutto un’eco lontana degli eventi del 1985. Tant’è che le strizzatine d’occhio, che ci sono e sono davvero molte, vengono ostentate solo a metà episodio, mettendo insieme un paio di colpi nostalgici ben assestati che il fan non potrà non apprezzare. Ma il fatto che questi arrivino dopo una mezz’ora abbondante di narrazione fa capire la solidità dell’intera storia e fanno capire subito quello che ha fatto Linfelof con la serie di Watchmen.
Ha preso gli elementi originali del fumetto e li ha usati per raccontare un’altra storia, una storia che promette di ampliare quella di partenza usando il suo stesso linguaggio, tradotto ad uso e consumo della televisione. Sembra essere riuscito a fare quello che tanti blasonati colleghi non erano stati in grado di realizzare e per questo risulta promettente.
Dal punto di vista visivo, niente da dire: regia, montaggio, fotografia, montaggio sonoro, è tutto di un livello altissimo e anche esteticamente Lindelof e compagni sono stati capaci di replicare la meravigliosa bruttura di Watchmen adattandola al contesto, decisamente più agreste. Le musiche poi, composte da due personalità dal calibro di Trent Reznor e Atticus Ross creano assuefazione.
La sensazione che prevale è quella di avere di fronte un piatto conosciuto e cucinato con gli stessi ingredienti ma in modo diverso. Qualcosa di fedele e d’infedele al tempo stesso. E cresce la voglia di averne ancora.