Il buon vecchio West
Il genere Western ha segnato più di un’epoca nella storia della cinematografia mondiale, influenzando generazioni, riuscendo a farle sognare ad occhi aperti, con le incredibili avventure di miti come Clint Eastwood e John Wayne.
In questo contesto la fa da padrona l’Italia, visto che il “Belpaese”, oltre ad aver visto la nascita del celebre fumetto Tex, ha dato i natali anche a pilastri del genere, veri mostri sacri che hanno posato almeno una pietra nella millenaria storia del genere tanto caro a Sergio Leone ed al celebre Franco Nero (due nomi “a caso”).
Il cosiddetto “Spaghetti western”, un vero fenomeno di culto, capace di rubare la scena sul grande e sul piccolo schermo sin dalla seconda metà degli anni ’90.
Ma non siamo qui a parlarvi delle origini del genere western al cinema, e quello che vogliamo trattare è invece il mondo tramite il quale i vari registi delle serie TV più famose, e non, sono riusciti a farci vedere il selvaggio West attraverso gli occhi stanchi e provati di cowboy solitari dal grilletto facile.
Potremmo identificare le origini del genere western con il film The Great Train Robbery, diretto da Edwin S. Porter nel 1903 e prodotto dagli Edison Studios, mentre in Italia, probabilmente, approda nel più recente 1942 grazie alla produzione de Una signora nell’Ovest (anche se resta vivo il dibattito), e da quella pellicola se ne sono susseguite moltissime altre, volte sempre a narrare le vicissitudini di uomini capaci di apparire come dei veri eroi, quasi ad anticipare ciò che stiamo vedendo in questi anni con il MCU.
Uomini soli in lande desolate e spoglie, deserti sconfinati, abitati, seguendo l’immaginario americano, da demoni selvaggi incarnati negli indigeni dalla pelle rossa, pronti ad attaccare gli ignari nativi nelle loro sicure dimore. Location suggestive, spazi giganteschi e sabbiosi, tradizione rotta prevalentemente da produzioni del grande schermo quali The Hateful Eight o Revenant, dove i protagonisti di Tarantino ed Iñárritu, si sono ritrovati in ambienti nevosi, bianchi, candidi, capaci di esaltare la solitudine degli uomini approdati nel nuovo continente.
Ma non solo il cinema ha deciso di adottare questi cambi di scenografia, visto che anche la miniserie Frontier (originale Netflix), che vede l’erculeo Jason Momoa nei panni del contrabbandiere Declan Harp, ha gettato i suoi protagonisti nella neve e nel fango.
Serie capace di rivisitare, a suo modo, il genere western, mettendo in risalto nuovi stili di narrazione e tematiche differenti da quelle divenute oramai cliché ricorrenti, con un Momoa sugli scudi ed assoluto protagonista, capace di reggere l’intera baracca sulle sue possenti spalle grazie, anche, ad una brillante recitazione.
Ambientazioni affascinanti sì, ma non congeniali a farle apparire al grande pubblico come le location ideali dove narrare le avventure dei cowboy, ed è per questo che nella stragrande maggioranza delle serie TV di questo genere vediamo sempre grandi scenografie desertiche e spoglie, come l’eccezionale Godless, capace di ridare vita ad un filone che non è mai morto, fondandosi su una delle tematiche più ricorrenti tra i cowboy trasposti su pellicola: la vendetta.
Ebbene sì, come novelli giustizieri di una qualsiasi Hell’s Kitchen o Gotham City, la vendetta è spesso il motore principale delle azioni dei nostri protagonisti dagli speroni stellati.
Sentimento nato da tradimenti, omicidi, abbandoni, capaci di far scattare una scintilla nel pistolero maledetto medio, e fargli compiere gesti al limite della legge.
Eroi dalla D muta, i quali riceverebbero senza alcun dubbio attestati di stima da Nero e Jamie Foxx, che avranno di certo apprezzato il lavoro svolto da un altro grande del cinema come Kevin Costner, vero mattatore della miniserie Hatfields & McCoys, che si è portata a casa ben 5 Emmy, tra i quali quello, appunto, per Miglior attore.
La serie, sconosciuta ai più, parla, per l’appunto, della vendetta che alimenta la vera faida avvenuta dal 1865 al 1891, tra queste due potenti famiglie americane, e capace, in sole 3 puntate (da 97 minuti ca.) di appassionare qualsiasi spettatore.
Passando da uno show pluripremiato ad un altro altrettanto riconosciuto, non si può non menzionare Deadwood, vincitrice di 3 Emmy e che ha messo in luce l’ennesimo aspetto che contraddistingue una serie western che si rispetti: l’oro.
Tutti noi siamo cresciuti sentendo almeno una volta nella nostra vita la storia dell’incredibile corsa all’oro, evento che ha caratterizzato tutta la metà del 1800, spingendo migliaia di persone ad intraprendere un viaggio di fortuna verso Ovest.
Deadwood riesce a mostrarci tutto ciò, mettendo in risalto anche l’avvento della rivoluzione industriale che plasmò e modellò il territorio americano e le abitudini dei nuovi abitanti, riuscendo a tracciare una linea di demarcazione tra vecchio e nuovo, linea che paradossalmente può essere identificata da quella ferroviaria, vero sinonimo di libertà per i cowboy.
Il western, infatti prende il suo nome, ovviamente, dal vecchio West, luogo ideale per la fuga e la libertà, dove l’inesplorato poteva celare fortuna, terre e tesori, sinonimi di una nuova vita.
Terre raggiungibili grazie al treno, vera chiave di volta della rivoluzione industriale americana trapiantata nel nuovo continente.
Rivoluzione faticosa, ma messa in atto con lacrime e sangue, e lo sanno bene i protagonisti di Hell on Wheels, serie che narra la costruzione della Union Pacific, la prima ferrovia transcontinentale della storia americana, un momento chiave per i coloni, per motivi economici, politici e culturali, visto che incarnava il simbolo del collegamento di una Nazione uscita con le ossa rotte da una sanguinosa Guerra Civile e che desiderava unire Est ed Ovest, Sud e Nord.
Protagonista dello show è il tenebroso Cullen Bohannon, volto che ha fatto appassionare anche le donzelle ad un mondo fatto prevalentemente di polvere e sangue.
Ultimo aspetto fondamentale per realizzare un serial western degno di nota, è la fotografia.
Lo sa bene, riferendoci al grande schermo, il maestro Lubezki, che in Revenant è riuscito a dare un senso di epicità mai visto prima, rendendo la pellicola famosa per aver donato l’Oscar a DiCaprio, ma soprattutto uno spettacolo visivo ed un fenomeno di culto per l’arte fotografica.
Non è paragonabile al pluripremiato film dei sopracitati mostri sacri di Hollywood, certo, ma anche l’avvincente serie Texas Rising, merita più di una menzione.
Ambientata nel 1836, in pieno territorio texano, narra il darsi battaglia tra gli americani e le tribù Comanche e Karankawa.
Sangue, sparatorie, emozioni ed una magnifica fotografia (ed un grande Jeffrey Dean Morgan) ci offrono uno show ideale per tutti coloro i quali sono cresciuti con il mito dei vecchi cowboy e delle loro spericolate sparatorie a cavallo.
Oro, sangue, vaste praterie, deserti e grande fotografia, questi sono i punti cardine del genere Western, o meglio lo sono stati fino al 2016, fino all’arrivo, sul piccolo schermo, di un qualcosa di incredibilmente innovativo, che ha immediatamente incantato la critica di tutto il mondo grazie ad una commistione di generi (tra i quali il cyber-punk/fantascientifico) ed uno script fondato su fantastici incastri. Quel qualcosa ha il nome di Westworld e, seppur non faccia riferimento espressamente al genere, in un modo o nell’altro ha cambiato totalmente la visione del classico western, rivisitandolo magistralmente, anche grazie al romanzo da cui è tratto, partorito dalla geniale mente di Crichton.
Ma alla fine, tralasciando tutto, fedele o no ai classici, con o senza citazioni e rimandi ai vari capostipiti della cinematografia, a noi tutti basterà vedere due uomini fuori da un saloon, pronti a fronteggiarsi in un duello mortale, o un solitario cowboy a cavallo, attraversare le lande polverose e desolate del Texas, per poterci innamorare nuovamente di un genere immortale ed irraggiungibile tanto quanto il vecchio e magico West.