Tra confusione e perfezione
Quando si concluse la prima stagione di Westworld, molti di noi finirono vittime della sindrome dell’abbandono, ed iniziarono a cercare sul web le notizie più disparate circa possibili date d’uscita dei nuovi episodi, rumors e chi più ne ha, più ne metta. Poi, una volta cominciata finalmente la seconda stagione, abbiamo appreso che forse stavolta sarebbe stato diverso. Quell’hype spasmodico si è tramutato in riflessione e sopracciglia aggrottate, e ci siamo calati nei panni dei nostri eroi del parco a tema in modo molto più razionale, meno emotivo e più lucido.
Le motivazioni? Sicuramente Netflix e compagnia ci hanno abituato troppo bene a quel “tutto e subito” che ci consente di fare binge-watching e di tenere l’hype sempre relativamente alto, anche a dispetto di qualche calo d’intensità. Se un episodio è un po’ più fiacco ecco che si passa immediatamente al successivo, che magari alza di nuovo la tensione. Nell’ultimo periodo è sempre stato così, e quando si ha a che fare con serie che rilasciano un episodio a settimana si entra un attimo in confusione, soprattutto quando poi il ritmo non è elevatissimo e la soglia dell’attenzione o il pathos rischiano di essere compromessi da qualche labirinto di troppo.
Già, il problema della seconda stagione di Westworld, in tal senso, sta proprio qui.
https://www.youtube.com/watch?v=sjVqDg32_8s&t=8s
Quando si è concluso l’ultimo lunghissimo episodio dunque, siamo stati avvolti da sentimenti ed emozioni contrastanti.
Sarà che la prima stagione è stata talmente perfetta, priva di sbavature, coinvolgente sin da subito, che sarebbe stato difficile persino per uno come Jonathan Nolan bissarne il successo, ma la sensazione a caldo è quella di sentirsi convinti a metà. L’idea di base, nonostante ci si sia ispirati a Chricton, è geniale e non poteva che trascinare gli spettatori bramosi di vedere sullo schermo certe tematiche, ma come buona parte delle serie il successo può portare a dei sequel forzati, che nonostante la brillantezza e la genialità di chi sta dietro lo script, non ci faranno mai vivere gli stessi sentimenti provati con l’originale.
Questa stagione ci ha regalato senza dubbio una serie di episodi coinvolgenti e qualche plotwist vincente, ma mancava sempre quella naturalezza, quella sensazione che si prova da bambini quando si scarta un regalo. Ci siamo sentiti cresciuti, di fronte al dono avevamo chiesto, felici di poterlo avere ma senza la curiosità dettata dalla sorpresa.
Questa confusione generale, abbiamo scoperto, è stata orchestrata da Bernard (Jeffrey Wright), dal modo in cui ha offuscato i suoi ricordi (non spoileriamo oltre, non si sa mai), laddove Ford era rappresentato da Jonathan Nolan e Lisa Joy, che hanno messo in atto una scrittura dettagliata ed incredibile che spesso ci ha cambiato le carte in tavola, ci ha destabilizzato, ottenebrando l’andamento delle cose, pur senza il fascino a cui eravamo abituati. Non siamo in grado di arrivare ad alcune risposte e togliere quel velo dinanzi ai nostri occhi, provando a capire il significato delle azioni di Dolores (Evan Rachel Wood) ma soprattutto di Bernard, senza poterci riuscire sino in fondo, se non in ultima istanza.
Questo è un bene, ma fino a un certo punto, come dicevamo prima. Dimostra ancora una volta – semmai ce ne fosse bisogno – la grandezza e la genialità di J. Nolan, ma per lunghi tratti sembra quasi un esercizio di stile fino a se stesso.
Forse Nolan e la Joy avrebbero potuto darci qualche indizio prima, qualche flashback un po’ più allusivo, lasciandoci la possibilità di intravedere ciò che sarebbe stata la fine ed iniziare a farci qualche domanda. Così, forse, avremmo aumentato i giri del motore.
Che poi è stato quello che è successo con la prima stagione: non è stato affatto facile collegare i tanti pezzi del puzzle, ma strada facendo venivano disseminati indizi che ci permettevano quantomeno di arrivare ad una conclusione senza vagare nel buio, e quando finalmente siamo giunti alla fine abbiamo spalancato la bocca. Qui invece quella fantastica coralità del primo Westorld perde i suoi punti di forza, si trasforma nella già citata confusione, e spesso assistiamo a morti che cadono come birilli dopo uno strike, senza capirne nemmeno il perché.
La coralità funziona sempre bene, ma non con l’eleganza della prima stagione. Avevamo chiuso con l’attesa di vedere cosa avrebbe combinato Maeve (Thandie Newton), però le grandi potenzialità di questo personaggio non vengono sfruttate a dovere, e ci risulta pure abbastanza complicato comprendere dove possano realmente spingersi i suoi “poteri”. Dolores diventa a lungo andare un po’ macchiettistica, e se in un primo momento ci sembrava un villain fantastico non ci garantisce poi quell’evoluzione che ci si poteva aspettare.
Tra i personaggi più interessanti c’è sicuramente Akecheta (Zahn McClarnon), e l’episodio 2×08 resta tra i migliori momenti dell’intera stagione, ma anche qui il finale dedicato a lui appare troppo debole.
Così come resta abbastanza complesso e macchinoso il concetto di libero arbitrio. Dal risveglio delle coscienze della passata stagione, ci si addentra in questo complicato sistema a cui si cerca di dare un significato. Ed ovviamente J. Nolan ci riesce piuttosto bene, poiché il talento e l’ingegnosità dello sceneggiatore sono evidenziati da una serie di passaggi sempre molto metodici, ma la laboriosità dell’argomento prescinde da tutto questo e inerpicarsi in un sentiero finora mai battuto in maniera del tutto risolutiva diventa una sorta di battaglia contro i mulini a vento.
Tuttavia è proprio questo episodio su Akecheta a darci gli spunti principali sul modo sopraffino di operare di J. Nolan, che sa lavorare meglio di chiunque altro (insieme al fratello, ovviamente) sul tempo, in tutte le sue forme. L’alterazione temporale qui diventa finalmente fluida, donando circolarità al tutto, mentre ci viene mostrata la storia di Akecheta attraverso flashback e salti vari, che ci regalano una grande dose di pathos, facendoci scoprire l’importanza di questo personaggio, nei fatti il primo a prendere possesso del libero arbitrio e scoprire che il mondo in cui vive è “sbagliato”.
Quindi in sostanza possiamo dire che J.Nolan fa quello che nessun altro altro forse sarebbe riuscito a fare meglio, tuttavia potrebbe non essere stato abbastanza.
Eppure è paradossale. Poiché Westworld ha tutte le carte in regola per essere considerato uno dei migliori prodotti mai creati: il suo essere complicato costituisce senza dubbio uno stimolo per lo spettatore che va oltre il mero intrattenimento, venendo continuamente obbligato a farsi domande su ciò che i suoi occhi stanno guardando. Jonathan Nolan è l’Alfred Borden della situazione, il mago che gioca con il pubblico, che a volte ci dà l’impressione di svelarci un trucco ma lo fa attraverso un altro trucco.
Ma, tornando alla questione esposta in partenza: ci serve tutto ciò? Sì, però forse così è troppo.
I creatori alzano la posta in gioco, rischiando, andando incontro alle volontà del pubblico, premettendo che – come già detto – proprio il concetto di sequel in sé significa assecondare lo spettatore e far perdere autenticità alle proprie idee. Per uno come J. Nolan, per cui le idee sono tutto, può essere una pista pericolosa.
Assecondare il pubblico vuol dire anche avvicinare stilisticamente il prodotto a ciò c’è attualmente sul mercato. Ed infatti Westworld 2 è molto più sanguinario, molto più splatter del primo. Ci sono più personaggi, più flashback, più linee temporali, più luoghi, più di tutto.
Restiamo comunque con una serie di domande a cui non riusciamo a dare una risposta definitiva. Ad esempio: che è successo negli altri parchi? Cosa sarà accaduto alle attrazioni di Raj e di Shogun World? Certo, potrebbe essere uno spunto per la prossima stagione, ma siccome ci è stato mostrato molto soprattutto del mondo Shogun e dei suoi personaggi, almeno qualche indizio ce lo saremmo meritato.
Naturalmente rimane quanto di meglio si possa vedere attualmente sul piccolo schermo, e tutto è incredibilmente mastodontico. Una fotografia eccezionale, dei costumi meravigliosi, scenografie accuratissime, e soprattutto attori impeccabili.
L‘Anthony Hopkins della prima stagione qui viene sostituito da Ed Harris, dal momento in cui comprendiamo la natura di William e il ruolo chiave di questo personaggio all’interno di Westworld. È lui a conquistare lo schermo e rubare la scena a Dolores e Maeve, che comunque ci regalano sempre delle performance eccezionali, e se il confronto con la passata stagione non regge non è certo colpa loro: gli attori restano grandiosi, i personaggi affascinanti, ma non quanto nella prima. Questo era anche ovvio, poiché il risveglio della coscienza in un robot batterà sempre tutto il resto.
Quello che è certo è che la seconda stagione di Westworld è talmente gigante, ha analizzato talmente tanti punti che necessita di esser fatta riposare un po’, per poi concederle una seconda visione, magari tra un paio di mesi, in cui senza dubbio comprenderemo tante cose che al momento ci sembrano un po’ oscure e probabilmente saremo in grado di apprezzarla di più; forse anche al pari della prima, chissà.
Perché in tutto questo c’è una certezza: se non avevano del tutto la necessità di una seconda stagione di Westworld, ora avvertiamo nitidamente il bisogno di una terza.