ogliamoci subito d’impaccio: chi sta scrivendo queste righe non ha mai letto Rumore bianco di Don DeLillo. Non che sia poi necessario aver letto i testi di partenza per poter apprezzare o comprendere le trasposizioni cinematografiche che da essi vengono tratti, anzi. Se da queste trasposizioni non si riesce a trarre il nucleo del discorso, beh, spesso e volentieri la colpa sta proprio in seno al fatto che la trasposizione non è in fondo così buona.
Eppure nel caso dell’annunciato adattamento White Noise scritto e diretto da Noah Baumbach l’interesse non stava tanto nell’idea di non avere un punto di riferimento utile per il confronto, quanto piuttosto nel fatto che gran parte della discussione era polarizzata attorno all’idea di come si sarebbe arrivati a pensare per il cinema il romanzo di DeLillo. Ma come farà mai Baumbach a portare sullo schermo uno dei pilastri della letteratura postmoderna, un’opera tanto apprezzata quanto divisiva, ci si chiedeva. E chi sta qui scrivendo, teso nel mezzo tra questo tipo di discussione, il talento di un autore reduce dal suo picco con Storia di un matrimonio e l’eccitazione imminente di confrontarsi da beato ignorante con il film, non poteva che unirsi, seppur da una differente prospettiva, a questa grande domanda collettiva.
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Ebbene White Noise è arrivato e anche in pompa magna, presentato in apertura della selezione del Concorso della 79esima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. È arrivato e si apre con un «Roll the film» di un cinico prof. Murray (Don Cheadle) che preannuncia una proiezione in sala davanti a una platea che sarà composta da qui in poi per lo più di salotti casalinghi, prima vertigine che caratterizza un film che di vertigini si nutre e che finirà distribuito in streaming dal grande impero rosso di Netflix.
Dice che vuole parlare dell’ossessione delle persone nei confronti degli eventi distruttivi che conducono all’esito finale per eccellenza, la morte, ma che ancor di più vuole parlare e indagare proprio quelle persone che conducono le loro esistenze nel tentativo di scansare qualche metro più in là quel terrificante esito. Questa della paura della morte è la linea che percorre l’intero White Noise, l’unico reale filo conduttore di una non-storia al quale si aggrappa un’opera che altrimenti in superficie schizza via condensandosi con un fare episodico solo in apparenza disomogeneo.
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Ma la morte, quella che temono nel cuore della notte il professore di studi hitleriani Jack Gladney (ancora un davvero ottimo Adam Driver) e sua moglie Babette (Greta Gerwig che trae forza dalla sua solita e solida caratterizzazione), è la massima irrazionalità possibile, che solo a pensarla come il fine a cui andare incontro scivola impazzita e genera ogni sorta di tremolante bizzarria. E quello che Baumbach pare aver capito dall’incontro con un DeLillo da dover portare al cinema è che per raccontare l’assolutezza di un mutevole concetto tanto astratto quanto tangibile come questo che si prende di petto qui, l’unica chiave sulla quale fare affidamento è il declinarlo in varie forme e contesti funzionali e conoscibili al mezzo espressivo utilizzato.
Quel che ne esce fuori è un’opera chimerica che utilizza varie forme del genere cinematografico per creare una prossimità di comprensione, un allaccio al noto per circoscrivere l’ignoto. Per raccontare l’abisso di una coppia di piccoli borghesi americani alle prese con ombre inafferrabili mentre tutto quanto attorno a loro si fa colore e materiale, così come è raccolto sugli scaffali all’interno di un ricorrente supermercato pieno zeppo della fiorente, tangibile e rassicurante economia del consumo statunitense.
Utilizza il linguaggio dell’horror, quello dell’avventura, quello del dramma familiare, quello della sci-fi, quello del noir in una continua girandola di registri che sconvolgono le coordinate di una coppia che naviga acque turbolente. Lo fa anche arricchendosi e sostentandosi di citazioni e richiami, come quello a Stranger Things, conscio o meno che sia ma più che esemplificativo con la nube tossica che crea apprensione nella porzione centrale del film, creando atmosfere note e identificabili in piena coerenza con lo spirito postmoderno e riflessivo che contraddistingue il lavoro di partenza di DeLillo.
Non si tradisce insomma nell’atteggiamento che adotta, e anzi fiuta sempre la via all’interno di questo groviglio di paure e spassosa banda di figli (tra cui Raffey Cassidy) per tirare stoccate di raffinata e graffiante ironia che trovano la loro perfetta collocazione anche nell’oggi – che a onor del vero, a quanto pare, a quanto dicono a chi scrive, molta farina già del sacco del romanzo.
White Noise è infatti pure estremamente divertente, a suo modo incredibilmente tenero e apprensivo nei riguardi dei due protagonisti che Baumbach incornicia con un grande affetto ponendoli al centro di un quadro in continua trasformazione dove a mettersi in gioco è anche un autore che è il primo a compiere uno slancio in avanti con un film fluviale, grande appuntamento in cui le qualità sembrano brillare tutte con lucentezza e luci al neon.