Will Smith torna al cinema con Zona d’ombra – Una scomoda verità
Bennet Omalu è un neuropatologo africano che avvia una sua indagine personale dopo aver riscontrato una patologia comune in alcuni giocatori di football americano. Una malattia degenerativa causata dai ripetuti traumi alla testa a cui i giocatori sono sottoposti ad ogni partita. E’ l’inizio di un’autentica battaglia contro l’istituzione sportiva americana per eccellenza, dimostratasi più volte insensibile all’argomento a causa dei tanti (troppi) interessi politici ed economici.
Dopo Il caso Spotlight (e il suo meritatissimo trionfo agli Oscar come miglior film) non ci saremmo aspettati di vedere un altro film-inchiesta così efficace. Invece Peter Landesman prende un bel respiro e anche un bel rischio, alza la testa e decide di “demolire” la sacralità del football americano, un autentico dogma che tiene incollati davanti alla televisione milioni di spettatori in tutto il mondo e che fa girare miliardi (non milioni) di dollari ogni anno, tra sponsor, scommesse e pubblicità. Zona d’ombra è un film che fa a venire a galla quella che può essere tranquillamente definita una mostruosità che un uomo, praticamente da solo, ha cercato di portare alla luce, non per avere fama e fortuna, ma per cercare di salvare delle vite. Landesman impregna il film di sfaccettature e sebbene non le analizzi tutte con la giusta cura rispetto al filone principale, cerca sempre di dare una visione d’insieme che renda l’idea di come quegli avvenimenti abbiano una rilevanza cruciale per l’immagine che l’America ha sempre voluto dare al suo sport nazionale. Si prende dei rischi, dicevamo, perché nel momento in cui mostri degli ex campioni ridotti quasi alla fame, a dormire in auto in zone disastrate della loro città, sei consapevole che stai praticamente mostrando l’altra faccia del sogno americano, quello che non si è avverato. In tutto questo si muove uno splendido protagonista, l’immagine di questa forsennata lotta per la vita.
Will Smith, di fatto, offre una delle migliori interpretazioni della sua carriera, tanto che risulta difficile, ora, dopo aver visto il film, accettare che la sua performance non sia stata considerata nemmeno per una misera nomination agli Oscar. Ci mette dedizione, passione, vigore, misurando ognuna di queste qualità alla perfezione, perché il ruolo lo richiedeva e non era per niente facile riuscire a rendere affascinante un personaggio come Omalu. Landesman, furbescamente, sa di avere in mano una super-star e fa di tutto per esaltarla, giustamente, seguendola in ogni più piccolo movimento e facendoci scorgere ogni più impercettibile emozione che compare sul suo volto. Dovessimo trovare degli aspetti negativi potremmo senza dubbio dire che questa pellicola non è dotata di un ritmo allettante, ma non poteva essere altrimenti.
Ancora potremmo dire che la critica di Landesman, per quanto coraggiosissima, non si spinge mai oltre quel limite che ci piacerebbe sempre vedere valicato, quel limite che ti porta l’antipatia che, già così, Zona d’ombra ha attirato su di se, soprattutto se si viene a sapere che anche Will Smith, inizialmente, aveva rifiutato di fare il film (è nota la sua grande passione per il football). Ogni critica però perde il tempo che trova quando si può constatare una struttura narrativa che ha lo straordinario pregio di rendere chiaro e comprensibile l’intero meccanismo d’inchiesta che Bennet mette in piedi, una cosa che invece non aveva saputo fare Adam McKay con La grande scommessa.